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Francia chiude campo di Calais

di Luca Mershed

Il presidente francese Francois Hollande ha confermato l’intenzione di chiudere il campo profughi di Calais nel nord della Francia, mentre la cancelliera tedesca Angela Merkel ha chiesto all’Europa di garantire gli accordi con i Paesi terzi per garantire il ritorno dei migranti. …Leggi tutto »

Arte e diritti umani. Katanani, artista profugo che racconta i rifugiati

“Il mio lavoro vuole richiamare l’attenzione non solo sulla causa dei palestinesi, ma su tutti coloro che vivono in uno stato di precarietà” ha esordito così Abdul Rahman Katanani l’artista palestinese protagonista di un evento al Senato della Repubblica su diritti umani, buona informazione e arte.  …Leggi tutto »

Kashmir, guerra dimenticata
Morti e feriti dopo una battaglia tra esercito e ribelli

di Luca Mershed

Il Commando del Nord dell’esercito indiano ha comunicato che 17 soldati e 4 presunti ribelli sono stati uccisi durante un attacco contro un quartier generale dell’esercito nel Kashmir sotto amministrazione indiana.

“Quattro terroristi sono rimasti uccisi in un’operazione antiterrorismo a Uri. 17 soldati hanno fatto il supremo sacrificio”, ha detto il Commando del Nord su Twitter. La zona di Uri si trova a circa 100 km ad ovest della principale città della travagliata regione settentrionale, Srinagar.

Il portavoce dell’esercito indiano, Goswami, ha sottolineato che i combattenti hanno, prima, attaccato una base di prima linea vicino al confine conosciuto come la Linea di Controllo o LoC prima di passare al quartier generale.

Un testimone a Uri ha confermato che nella mattinata poteva vedere il fumo fluttuare all’interno della sede di fanteria e che si sentivano spari continui di arma da fuoco pesante.

Il Ministro degli Affari Interni, Rajnath Singh, ha riferito attraverso una serie di tweet di aver parlato dell’attacco ai militari ed ai leader politici della regione ed ha cancellato i viaggi in programma in Russia e negli Stati Uniti.

Secondo la stampa locale, il Capo dell’esercito, Dalbir Singh Suhag, e il Ministro della Difesa, Manohar Parrikar, hanno visitato il Kashmir dopo l’attacco.

La regione himalayana è in preda a disordini mortali da più di due mesi a causa delle proteste dei residenti che si scontrano, quasi quotidianamente, con le forze di sicurezza. Dall’inizio delle proteste contro il dominio indiano, ci sono stati almeno 87 civili uccisi e migliaia di feriti. Le manifestazioni si sono innescate l’8 luglio, dopo l’uccisione di un leader ribelle popolare in uno scontro a fuoco con i soldati.

Il Kashmir è una regione divisa in due parti, una amministrata dall’India e l’altra dal Pakistan. L’India afferma che il Pakistan abbia sostenuto un movimento secessionista violento in Kashmir. Islamabad ha sempre negato questa accusa e denomina gli abitanti del Kashmir come dei combattenti ribelli per la libertà.

Le proteste furiose che sono sorte l’8 luglio nel Kashmir amministrato dall’India sono un segno evidente che il sentimento popolare non può essere ignorato solo perché non è in sintonia con la propaganda nazionalista di un Governo rappresentativo.

In assenza di forum politici legittimi, tale sentimento fomenta disordini arrivando fino a circostanze che forniscono un martire, come Burhan Wani, il giovane ribelle la cui uccisione da parte delle forze di sicurezza indiane ha acceso le proteste in Kashmir.

Spesso, questi movimenti di protesta sono degli atti disperati, senza una possibilità di successo, che portano solamente ad una violenza senza un fine concreto. La violenza si è sparsa anche fra le fasce giovani della società del Kashmir e non sorprende che la generazione emergente di Kashmiri si identificano con i loro omologhi palestinesi e stanno chiamando la nuova ondata di proteste “Intifada”.

Un’altra somiglianza con la questione palestinese è che la situazione attuale in Kashmir è stata causata dai colonialisti occidentali. Nel redigere la mappa per la divisione del subcontinente indiano nel 1947, il Regno Unito ha visto il Kashmir interamente attraverso le lenti della storia recente senza prendere in considerazione le diverse identità culturali, religiose e sociali.

Se l’India continua a trattare i Kashmiri con un sentimento di disprezzo violento ed il Pakistan adotta una linea politica per sfruttare la situazione, cresceranno sempre di più attori non statali che si specializzeranno nel trasformare la violenza politica in caos.

Dall’indipendenza dell’India, il Kashmir è diventato una pallina di ping-pong tra India e Pakistan. Quest’ultimo ha ceduto parte del territorio alla Cina nel 1962 per assicurarsi un’alleanza contro l’India.

Da allora ci sono stati tre conflitti localizzati ed una guerra anche se un’iniziativa trilaterale tra il 2004 e il 2007 che ha coinvolto l’India, il Pakistan e separatisti del Kashmir ha dimostrato che il problema è risolvibile.

Un generale del Pakistan, Pervez Musharraf, ha riconosciuto che non potrebbe essere compiuto nessun progresso sostenibile fino a quando il Kashmir verrà visto come una semplice disputa bilaterale fra India e Pakistan.

Nel 2006 l’India ed il Pakistan avevano, anche, concordato in linea di principio di firmare una serie di accordi per risolvere le loro controversie territoriali di vecchia data.

Questi accordi hanno portato ad un trattato sulla gestione congiunta del Kashmir da parte dell’India e del Pakistan, in base al quale entrambi avrebbero ritirato le proprie forze militari dalla regione e creato un forum di colloqui per decidere sullo status definitivo del Kashmir.

Purtroppo, il processo è stato accantonato a causa del cambio di Governo in India e la caduta del regime di Musharraf in Pakistan. Quindi, è rinato il risentimento ed i conflitti politici che hanno portato ad una forte destabilizzazione della Regione.

Per molti in Kashmir, il sentimento guida delle proteste in corso ricorda l’ultima rivolta popolare del 1989. L’India ha risposto con una repressione brutale in cui si sono verificate parecchie violazioni dei diritti umani.

La lotta è diventata sempre più violenta e radicalizzata a causa dell’afflusso di migliaia di militanti con base in Pakistan, molti dei quali sono guidati dai veterani mujaheddin della resistenza che ha avuto successo contro l’occupazione sovietica dell’Afghanistan.

 

Stop bombe in Siria

di Antonella Napoli
Sit-in in piazza Santi Apostoli, venerdì 2 settembre, ore 11 per sostenere l’appello alla tregua e il rispetto dei corridoi umanitari in Siria …Leggi tutto »

Erdogan e le conseguenze del golpe taciute

di Luca Mershed

Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha criticato alcuni Paesi occidentali -senza fare nomi- per aver supportato il colpo di Stato del 15 luglio che ha lasciato più di 270 morti e 70.000 persone sospese dal proprio lavoro. …Leggi tutto »

Solidarietà e amicizia, bimbi saharawi accolti in Italia.

Anche quest’anno i bambini saharawi, che durante l’anno vivono nei campi profughi nel Sahara Occidentale in Algeria, trascorreranno in Italia il periodo estivo.
Ieri, un gruppo di tredici di loro è stato ospitato al Senato della Repubblica. …Leggi tutto »

‘Poverty is sexist’, nuova campagna One

di Antonella Napoli

Il campionato europeo di calcio ‘Euro 2016’ è partito. Tanti goal importanti sono già stati segnati. Ma il più avvincente è stato quello messo a segno alla vigilia dell’importante kermesse sportiva dagli Youth Ambassadors di ‘ONE’, organizzazione fondata da Bono Vox e sostenuta da oltre 7 milioni di membri che operano con campagne e attività di sensibilizzazione per combattere la povertà
Duecentocinquanta giovani si sono ritrovati questa settimana a Parigi per ‘disegnare’ un enorme campo di calcio ‘umano’ nel centro della capitale francese e denunciare che la povertà è sessista. Obiettivo del flash-mob era quello di chiedere ai leader mondiali di garantire a donne e ragazze pari opportunità e strumenti degli uomini e investire su di loro per favorire lo sviluppo delle società di cui sono espressione.
Tra i giovani protagonisti di questo evento anche Federico Sarri, 22 anni, nato a Magenta e residente a Corbetta e Chiara De Carlo, ventiduenne originaria di Nardò, attualmente a Londra, e molti altri italiani accorsi insieme a centinaia di attivisti provenienti da varie parti dell’Europa e dell’Africa per manifestare a margine del forum dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico riunitosi giovedì scorso a Parigi.
Rappresentanti di oltre 50 nazioni, vestiti di bianco, i 250 giovani hanno formato un enorme rettangolo di circa 700 metri quadrati contornato da striscioni su cui campeggiava il messaggio: “La povertà è sessista. Non lasciamo donne e bambine a bordo campo”.
Grazie alla loro caparbietà sono riusciti a incontrare ministri e rappresentanti di governo e a portare le richieste all’attenzione di alcuni tra i paesi più ricchi del mondo.
Più che promesse, gli Youth Ambassadors di ONE chiedono ai leader mondiali di agire concretamente.
Una delle prime opportunità per dimostrare che è possibile eliminare la povertà estrema e le discriminazioni di genere è il rifinanziamento del Fondo Globale per la lotta contro l’AIDS, la tubercolosi e la malaria, stabilito nel corso del G20 a settembre in Canada.
“Noi Youth Ambassadors abbiamo un messaggio per i politici – sottolinea Federico Sarri, tra i 40 italiani presenti a Parigi – vogliamo azioni concrete per costruire un mondo migliore e con meno ingiustizie. Siamo andati a Parigi per incontrarli e portare il nostro messaggio di persona. La percentuale di persone che vive nella povertà estrema si è ridotta del 66% tra il 1990 e il 2012, in buona parte grazie alla cooperazione allo sviluppo. Siamo a buon punto, ma tutto questo non basta: possiamo raggiungere l’obiettivo di eliminare la povertà estrema solo se i leader del mondo daranno priorità ad investimenti verso ragazze e donne”.
La campagna ‘Poverty is Sexist’ vuole evidenziare che povertà e
discriminazione di genere sono interconnessi.
Oggi, 62 milioni di ragazze al mondo non ricevono un’educazione, in Africa tre adolescenti su quattro che hanno contratto l’HIV sono ragazze e una donna in Sierra Leone ha un rischio 183 volte maggiore di una gestante in Svizzera di morire durante il parto.
Ognuno di noi può fare qualcosa per provare a cambiare questo stato di cose chiedendo all’Italia di giocare la sua parte e rifinanziare il Fondo Globale firmando la petizione su https://act.one.org/sign/fight_AIDS_TB_Malaria.

Teatro e solidarietà a Stromboli

di Antonella Napoli

Teatro ecologico e solidarietà. Questo il binomio vincente della terza edizione della Festa del teatro ecologico, inaugurata nel 2014 con il riconoscimento della Medaglia di Rappresentanza del Presidente della Repubblica, che si svolgerà a Stromboli, nello splendido scenario delle Isole Eolie, dal 27 giugno al 4 luglio.
Come nel 2015, anche quest’anno Medici senza Frontiere, partner dell’evento, sarà presente con la campagna ‘Milioni di Passi’.
Il programma, dedicato a William Shakespeare a 400 anni dalla sua morte, si articolerà in circa quindici appuntamenti di teatro, musica, danza, letture, presentazione di libri, performance, giochi interattivi, laboratori, e altri incontri sempre “a spina staccata”, fanno notare gli organizzatori, ovvero “senza uso di corrente elettrica ma con il solo sostegno della luce del sole e l’altre stelle”.
Conosciuta da tutti gli amanti del turismo responsabile, Stromboli è la migliore scenografia per una rassegna che si propone come incontro sinergico tra energia sostenibile, ambiente, turismo, cultura e arte e che in 4 anni è diventata un appuntamento molto atteso nel mondo della cultura e del teatro.
Al centro dell’edizione 2016, dal titolo ‘Shakespeare on the rocks’, una produzione de ‘La tempesta’ opera del grande drammaturgo inglese, curata da Alessandro Fabrizi, regista e ideatore della kermesse.
Questa ‘Tempesta’, proposta in più giornate en plein air in diversi luoghi dell’isola, vedrà la partecipazione di attori professionisti e di alcuni abitanti dell’isola che si preseteranno a giocare agli spiriti “islanders”.
Tra gli attori, Hossein Taheri, Paolo Zuccari, Elodie Treccani, Maria Vittoria Argenti, Raffaele Gangale, Guido Targetti, Ezio Spezzacatena, Cesare D’Arco, Marco Canuto, Lavinia Savignoni.
Canzoni e musiche saranno eseguite dal vivo da Camilla Dell’Agnola. Giorgio Rossi, che da quest’anno cura le sezione danza della Festa, elaborerà gli interventi degli “spiriti” ed il masque, a cui donerà anche uno specialissimo cameo nel ruolo di Giunone.
Tutti gli eventi in programma sono caratterizzati dallo stesso filo conduttore, dall’incontro con Bruce Myers e i suoi… Shakespeare, al “Venere & Adone” con Laura Mazzi, al Workshop di Improvvisazione intitolato One Voice Shakespeare a cura di Keith Johnstone e Ken Cheesman (Emerson College di Boston) e lo ‘Shakespeare Cabaret Act’ con The Crazy Neighbours, il racconto di trent’anni di produzioni shakespeariane da parte di due esponenti della Actors Shakespeare’s Company di Boston infarcito di aneddoti e canzoni, dal tradizionale al pop.
Sperimentale e interessante la nuova sezione della Festa, intitolata “ameublement de l’ile” che prevede interventi a sorpresa di tutti gli artisti presenti in luoghi imprevedibili, come alimentari, bar, spiagge, dedicati ai Sonetti di Shakespeare.
Ma l’evento che riteniamo davvero imperdibile è la ‘lettura spettacolo’ di brani dal Troilo E Cressida nella nuova traduzione di Iolanda Plescia, in collaborazione con Medici Senza Frontiere per la campagna #milionidipassi.
Da vedere fino all’ultimo scatto la mostra fotografica di Paolo Longo dedicata alle maschere del teatro come è da seguire la presentazione della Nuova Carta Geologica di Stromboli, a cura di Guido Giordano, presidente dell’Associazione Italiana di Vulcanologia.
Il programma della Festa si concluderà con i Sonetti di Shakespeare nella traduzione di Dario Iacobelli in lingua napoletana, con Lino Musella, l’anteprima di una creazione coreografica del duo Fortuni/Ciulli appositamente creata per la Festa e un laboratorio di teatro poetico del movimento a cura di Giorgio Rossi “della materia di cui son fatti i sogni”.

Papua Nuova Guinea: spari su studenti. Polizia reprime con la forza le proteste

di Luca Mershed, Italians for Darfur

La polizia della Nazione del Pacifico della Papua Nuova Guinea ha sparato “direttamente sulla folla” di studenti universitari nel corso di una protesta sull’anti-corruzione. Le fonti affermano che sono stati uccisi 4 studenti mentre si erano rifugiati nel campus universitario.
La sparatoria ha lasciato la capitale Port Moresby nel caos in quanto la violenza si è anche portata in un ospedale importante della città, dove gli studenti si sono rifugiati per attendere le notizie dei loro compagni di studio. Sono stati anche riferiti saccheggi e disordini.
“C’è stato un grande scontro fra i cittadini e la polizia appena fuori l’ospedale generale di Port Moresby”, ha detto un funzionario dell’ospedale Reuters. La sparatoria iniziale si è verificata presso l’Università di Papua Nuova Guinea, dove migliaia di studenti della nazione del Commonwealth hanno chiesto per settimane che Peter O’Neill, il Primo Ministro, si facesse da parte per le accuse di corruzione.
I testimoni hanno detto che la polizia ha ordinato agli studenti di non procedere e gli hanno impedito di salire a bordo degli autobus, dando un termine di cinque minuti per tornare al campus e chiedendo che il leader studentesco fosse consegnato.
Quando gli studenti hanno ignorato la scadenza ed hanno tentato di marciare a piedi, la polizia ha aperto il fuoco con proiettili veri e gas lacrimogeni.
“Colpi di pistola, le ragazze piangevano ed urlavano qua e là, gli studenti che scappavano in ogni direzione, mi sono sentito come se fossi in un campo di battaglia”, ha scritto su Facebook, lo studente Janet Thorley Mong.
Un altro studente, Stacey Yalo, ha riferito che le persone si erano nascoste dalla polizia nel campus. “La situazione è molto tesa e tutti sono molto confusi in questo momento”, ha scritto ABC News.
“Si è giunto in un punto in cui la polizia si è rivolta agli studenti come se fossero dei criminali. Stanno sparando contro di loro. Sono qui fuori a sparare ed uccidere”, ha continuato a comunicare ABC News.
La sparatoria aumenta la crescente tensione nella povera Nazione dopo che un’indagine da parte dei funzionari anti-corruzione hanno trovato colpevole il signor O’Neill di favorire pagamenti fraudolenti da parte del Governo -di circa 15 milioni di sterline- in favore di uno studio legale.
Gli studenti in tutta la Nazione hanno chiesto al signor O’Neill di farsi da parte, accusandolo di bloccare le indagini di corruzione. Il primo ministro O’Neill ha rifiutato di essere interrogato dal Direttorio contro la Frode Nazionale ed Anticorruzione, riuscendo ad impedire il suo arresto per vie legali.
Il Paese, un’ex colonia australiana che ha trovato l’indipendenza nel 1975, ha più di sette milioni di persone ed è stata a lungo tormentata dalla corruzione ed alti livelli di violenza e di criminalità.
La Papua Nuova Guinea, è stata classificata uno dei Paesi più corrotti del Mondo nel 2012 da parte di Transparency International. Nel 2014, lo stesso Mr O’Neill è stato accusato di frode da parte dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, che ha emesso un mandato di cattura. Il mandato non è stato messo in atto finora.
Secondo la Banca Mondiale, il 70% del Paese, il più linguisticamente diverso nel Mondo, vive in condizioni di povertà. L’Australia ha circa 70 agenti di polizia federali stanziati in tutto il Paese e Julie Bishop, Ministro degli Esteri australiano, ha chiamato alla calma da entrambe le parti esortando le autorità a rispettare il diritto pacifico e legale di protestare.
“So che è stato sparato agli studenti, ma stiamo ancora cercando di determinare se ci sono stati morti e feriti”, il ministro Bishop ha detto ai giornalisti.
I funzionari medici a Port Moresby hanno affermato che almeno 10 studenti sono stati ricoverati “in una situazione difficile”. Le immagini che circolano sui social media hanno confermato come gli studenti feriti fossero stati portati via.
Ci sono state segnalazioni contrastanti sulle vittime. Alcune personalità dell’opposizione hanno detto al Parlamento che quattro persone sono morte, mentre gli altri rapporti parlavano che era morta una persona. Anche Reuters ha citato una agenzia di aiuto che parla della morte di quattro studenti in una clinica nel campus nel quartiere Waigani di Port Moresby.
Il commissario di polizia della Papua Nuova Guinea, Gari Baki, ha comunicato che ci sono stati dei decessi senza dare un numero preciso.
Un testimone oculare, David Rupa, ha detto stava andando a lavorare quando sono stato assorbito dalla protesta. Ha sottolineato di aver visto gas lacrimogeni e gente che correva ai ripari mentre venivano sparati dei colpi di armi da fuoco.
“Ho visto i poliziotti colpire delle ragazze mentre venivano sbattute per terra. Ho pianto e mi è stato detto che mi avrebbero sparato se avessi filmato o scattato immagini”, ha continuato il testimone. Ha anche detto di aver visto del fumo proveniente da un dormitorio presso l’università, e che i genitori stavano scendendo al campus per assicurarsi che i loro figli non fossero rimasti feriti.

Venezuela, inedia o resurrezione

Di Livio Zanotti

Ramon mette il telefono-cellulare in vivavoce e dall’ufficio di funzionario della facoltà d’Architettura dell’Università Nazionale, con lo stadio olimpico davanti alla finestra e 10mila chilometri di disgrazie, montagne, foreste e acque atlantiche che ci separano, mi giungono il suono della chitarra acustica di Reynaldo Goitia e la voce che cantilena il refrain di “El cadaver de un corazón roto”, lamento d’amore e di vita quotidiana a Caracas. E’ l’hit delle poche balere ancora aperte il sabato sera: ”…se il governo non aiuta il popolo, cosa accadrà…”, canta il menestrello che prima del successo canoro faceva l’avvocato. “E’sulle labbra di tutti, chavisti e anti-chavisti, perché alle pene del cuore intreccia la miseria della tavola all’ora dei pasti, l’ingiustizia della giustizia, la delusione del chavismo, i morti ammazzati per la strada dalla criminalità di cui nessun’altra canzone parla”, commenta Ramon che nell’alta valle di Caracas è nato e cresciuto.
Suona come epigrafe allo sconquasso che m’ha appena riassunto e in cui annaspa il paese bolivariano, orfano di Hugo Chavez e dell’acrobatico equilibrio, precario ma dinamico, in cui il leader scomparso era riuscito per una dozzina d’anni a mantenere la sua rivoluzione nazional-popolare. Una crescita e una modernizzazione complessive della società e dell’economia le aveva pur portate: più lavoro, più educazione e più salute. Sebbene persistessero arretratezze pesanti, fragilità e contraddizioni (burocratizzazione e corruzione) a fatica contenute dal carisma di Chavez, dal potere che gli garantivano il sostegno militare e soprattutto i petrodollari, fortuna e maledizione del Venezuela saudita. La morte del Colonnello e la caduta dei prezzi petroliferi oltre ogni previsione, hanno travolto le limitate capacità di governo del Delfino, Nicolás Maduro. Le sue risposte alla crisi, sovente autoritarie e demagogiche, l’hanno soltanto aggravata.
Trasformandola alla fine in un’agonia scossa dai violenti sussulti causati dalla scarsità d’ogni bene: degli alimenti e dei medicinali, dell’energia elettrica e della sicurezza personale che con il buio della notte cade in trappole spesso mortali nelle strade delle città per lo più prive d’illuminazione. “… Non abbiamo automezzi, non abbiamo polizia, ma in qualche modo l’aiuteremo…”, canta ancora Reynaldo Goitia imitando le risposte registrate che ricevono i cittadini quando chiedono soccorso ai centralini telefonici della forza pubblica. Alla crisi dei trasporti interni, da sempre difficili per dilagante abusivismo delle urbanizzazioni e le insufficienze infrastrutturali, si aggiunge ora il rischio d’isolamento internazionale. Dopo Lufthansa, Air Canada e Alitalia, anche Latam, la più grande compagnia aerea sudamericana, ha annunciato la sospensione dei suoi collegamenti con Caracas. Il Venezuela, terra di gesta portentose e sogni infranti, appare soverchiato dalle sue stesse necessità insoddisfatte.
L’inflazione, quest’anno al 150 per cento, secondo il Fondo Monetario Internazionale raddoppierà nel 2017; l’indebitamento va gonfiandosi come un torrente in piena, al pari della disoccupazione. Per riservare la maggiore quantità possibile di energia all’ industria, i dipendenti pubblici lavorano solo al mattino, 2 o 3 giorni a settimana. Nonostante ciò, a causa delle frequenti interruzioni di elettricità, molte fabbriche hanno ridotto produzione, personale e relativi salari agli operai rimasti. Neppure un centesimo d’investimento dall’estero. Anzi le imprese straniere già esistenti, soprattutto nel settore energetico, restringono l’attività degli impianti malgrado la recentissima ripresa dei prezzi petroliferi sui mercati internazionali. Alla feroce siccità provocata dal periodico fenomeno meteorologico del Niño, il governo attribuisce i pessimi raccolti di cereali, leguminose, verdure e per attenuare le penurie conseguenti ha inventato l’agricoltura vertical, affidandola a un nuovo ministero ad hoc. Così che in giardini pubblici e cortili, su spalliere alte 2 o 3 metri, ora fioriscono gli orti di guerra.
Giustificandosi con questa situazione ch’egli stesso ha contribuito a creare, Maduro ha rinnovato un mese fa il decreto sullo stato di emergenza, che sospende alcuni diritti costituzionali e riduce i poteri dell’Asamblea Naciónal, il Parlamento in cui dalle elezioni del dicembre scorso l’opposizione ha la maggioranza dei due terzi e pertanto il controllo dell’attività legislativa. L’arco di partiti che ne contestano la legittimità e vogliono cacciare il Presidente prima della scadenza naturale del mandato, tra poco meno di 2 anni, ha raccolto un milione e 800mila firme per un referendum che però non riesce a consegnare al destinatario, il Consiglio Elettorale, perché impediti dall’esercito che protegge la cittadella delle sedi istituzionali. Per protesta hanno allora occupato le strade del centro per un’intera giornata con una folla di manifestanti. Il governo ha risposto con manovre militari che hanno circondato la capitale di soldati e reparti blindati, ma anche di mense popolari per migliaia di persone. Messaggio eloquente: ci sono bastone e carota, ciascuno faccia la sua scelta.
L’ex presidente dell’Uruguay Pepe Mujica, esponente d’indiscusso prestigio della sinistra sudamericana, teme che l’escalation possa portare a un nuovo colpo di stato militare: ”Di questo passo le istituzioni democratiche se ne vanno all’inferno… c’è gente dell’opposizione che il golpe lo vuole da sempre, ha anche provato a farsene uno che però gli è scoppiato tra le mani…”. Il suo ex ministro degli Esteri e attuale segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani, Luis Almagro, sta comunque valutando se il governo venezuelano ha violato lo statuto democratico dell’OSA. “Almagro è un agente della CIA”, ha subito reagito pubblicamente Maduro. “Sei pazzo come una capra”, gli ha replicato altrettanto prontamente Mujica, nella sua agreste spontaneità. Non ci sono precedenti di scambi altrettanto coloriti nella pur creativa diplomazia americana. Solo il ricordo dei devastanti colpi di stato degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso rendono più che caute le cancellerie dell’intero continente, rispetto ai pericoli di un’aperta rottura istituzionale.
Tanto Maduro quanto la maggior parte dell’opposizione sono consapevoli dei rischi estremi di fronte ai quali è giunto il Venezuela, sebbene nessuno rinunci a cercare di trarne in ogni caso un profitto di parte. Con somma discrezione e senza alcun riconoscimento formale, è stato avviato un dialogo. A Punta Cana, centro balneare della Repubblica Dominicana, si stanno incontrando esponenti del governo (nelle conversazioni è intervenuto il vicepresidente Aristobulo Iztùriz Almeida) con autorevoli inviati di Henrique Capriles, il capo di Unidad Democratica, il partito oppositore di maggior consistenza. Presenti in qualità di mediatori e garanti rappresentanti di Unasur (la Comunità fondata nel 2008 con il trattato di Brasilia che federa 15 paesi latinoamericani tra cui tutti i più importanti) e l’ex premier spagnolo José Luis Zapatero. La Segreteria di Stato vaticana e i fratelli Castro dall’Avana, un benevolo silenzio di Obama dalla Casa Bianca, accompagnano a distanza l’estremo tentativo di acciuffare per i capelli il Venezuela per evitargli il precipizio.