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Costa d’Avorio, nuovi orrori

di Luca Mershed, Italians for Darfur

L’orrore è arrivato dal mare, scatenando il terrore e seminando morte sulle spiagge della Costa d’Avorio. Alcuni uomini armati del ramo nordafricano di al-Qaeda hanno ucciso almeno 16 persone, tra cui quattro europei, dopo aver aperto il fuoco in diversi alberghi della  costa ivoriana.

Il Governo ha detto che le forze di sicurezza hanno ucciso i sei assalitori che hanno lanciato gli attacchi contro tre hotel nella famosa località balneare di Grand-Bassam, luogo di vacanza per i residenti di Abidjan, da cui dista circa 40 km.

Grand-Bassam, che conta circa 80.000 abitanti, è considerato Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO ed è stata la capitale storica fino a quando ha lasciato il posto all’attuale Abidjan. È, tuttavia, rimasta un importantissimo snodo e porto commerciale.

Tra i 16 morti ci sono due soldati, ha detto il presidente della Costa d’Avorio, Alassane Ouattara. I media locali hanno riferito che degli uomini armati sono entrati nel L’Etoile du Sud Hotel, cogliendo alla sprovvista gli ospiti ed il personale inermi. Il portavoce del Ministero degli Esteri francese ha affermato che anche un cittadino francese è stato ucciso. Un gruppo di monitoraggio, ha sottolineato che al-Qaeda nel Maghreb Islamico ha rivendicato l’attacco.

Koba Maiga, un commerciante locale originario del Mali, ha raccontato che si trovava alla moschea quando ha sentito gli spari verso le 13.30 locali.

“Abbiamo avuto la guerra qui pochi anni fa, quindi sappiamo quando si tratta di armi automatiche appena le sentiamo. La domenica, a volte ci sono scontri tra le forze di sicurezza ed i giovani di Abidjan che scendono verso la costa e causano problemi in spiaggia”, ha detto.

È stata una carneficina. Ce ne erano almeno quattro. Tre camminavano fianco a fianco lungo la spiaggia e c’era un quarto uomo che sparava sui sopravvissuti”, ha poi continuato.

“Tante persone sono corse fuori in mare per sfuggire. Quindi, a parte le persone che sono morte per i colpi di pistola ce ne sono state alcune che sono annegate e sono state spazzate via in mare. Erano africani subsahariani. Anche se indossavano passamontagna tutti hanno visto che avevano le mani brune. Ora sono calmo, l’esercito ivoriano è qui.”, conclude il testimone della terribile sparatoria.

Il portavoce per l’Ufficio Estero Britannico (FCO) ha affermato che i funzionari stanno, urgentemente, cercando di stabilire se eventuali cittadini britannici sono stati coinvolti nell’incidente.

Il FCO sconsiglia tutti i viaggi non essenziali verso le regioni occidentali della Regione delle Montagne, Haut-Sassandra, Moyen-Cavally e Bas-Sassandra. Sugli attacchi di domenica ha riferito: “Il 13 marzo ci sono state segnalazioni di un attacco armato al Grand-Bassam resort, nei pressi di Abidjan. Si dovrebbe evitare l’area, se possibile. Se si è in prossimità, seguire le istruzioni delle autorità di sicurezza. C’è un’alta minaccia di terrorismo. Si dovrebbe essere vigili dopo i recenti attentati in Mali e Burkina Faso. Gli attacchi potrebbero essere indiscriminati, anche nei luoghi visitati dagli stranieri”.

Gli attacchi degli ultimi mesi contro gli alberghi di lusso nelle capitali delle vicine Mali e Burkina Faso hanno causato la morte di decine di persone, obbligando i Paesi dell’Africa occidentale ad aumentare la sicurezza di fronte a una minaccia terroristica in crescita.

Gli analisti hanno espresso il timore che gli attacchi potrebbero diffondersi nel resto della Costa d’Avorio ed in Senegal mentre aumentano le esercitazioni militari guidate dagli Stati Uniti nella Regione con lo scopo di contrastare le minacce terroristiche.

Questo tipo di attacco è stato il primo del suo genere in Costa d’Avorio da quando i militanti hanno cominciato a destabilizzare il vicino Mali nel 2012. Un intervento militare francese che ha avuto inizio nel nord del Mali nel 2013 è stato esteso per coprire l’intera Regione del Sahel nel 2014.

Ma la Costa d’Avorio, dove le forze di pace francesi sono rimaste tra il 2002 ed il 2014, non era stato considerato una priorità per l’anti-terrorismo.

Spiraglio di luce in Yemen: una tregua possibile

di Luca Mershed, Italians for Darfur

 

In Yemen perdura una guerra civile che ha già causato la morte e la fuga dalle proprie case di migliaia di persone. Nonostante ciò, sembrano esserci segni di una possibile tregua e di un miglioramento dell’insostenibile situazione in cui si trova il popolo yemenita.

Infatti, l’Arabia Saudita ha avviato dei colloqui diretti con i ribelli Houthi nel corso della guerra –entrata già nel secondo anno- che è diventata una prova di determinazione per Riyad di difendere i propri interessi in modo aggressivo nella Regione.

Un funzionario dei ribelli ed una coalizione saudita guidata da militari hanno confermato che i colloqui stanno avendo luogo nei pressi del confine saudita-yemenita. Ma le due parti sembrano avere molte divergenze sull’ordine del giorno dei negoziati iniziati lunedì.

I colloqui si concentrano sui modi per porre fine alla guerra e per avviare un immediato cessate il fuoco”, ha detto il Portavoce degli Houthi, Mohammed al-Shire’i. La coalizione ha affermato, in una dichiarazione, che i negoziati hanno solo creato uno “stato di calma” nella zona di confine per permettere la consegna degli aiuti umanitari.

Entrambe le parti hanno sottolineato di aver dato luogo ad uno scambio di prigionieri: la coalizione saudita ha dichiarato che gli Houthi hanno rilasciato un soldato dell’Arabia Saudita, mentre i sauditi hanno liberato sette yemeniti detenuti in una zona di combattimento, vicino al confine.

Supportata dagli Stati Uniti, una coalizione saudita guidata dagli Stati arabi, per lo più sunniti, ha lanciato una campagna aerea contro gli Houthi a marzo, con l’obiettivo di scalzare rapidamente i ribelli e rimettere il presidente Rabbo Mansour Hadi al potere.

Al contrario, lo Yemen è stato inghiottito in un’estenuante guerra che ha coinvolto anche le forze di terra dell’Arabia Saudita, altre monarchie sunnite del Golfo, il Sudan e l’Egitto. Invece di limitarsi a essere un conflitto locale che ha coinvolto alcuni soggetti esterni, il Paese è diventato un teatro delle rivalità tra la potenza della Regione sunnita, l’Arabia Saudita, e la sua prima rivale sciita, l’Iran. Gli Houthi hanno aderito alla setta degli Zaidi dell’islam sciita. L’Iran sostiene gli Houthi politicamente, anche se gli ha negato l’invio di armi.

In una dichiarazione, la coalizione sunnita ha affermato che le tribù yemenite che abitano la regione di confine saudita-yemenita sono stati mediatori nei colloqui. Lo sviluppo positivo della situazione potrebbe rappresentare una possibile via per una soluzione negoziata del conflitto dopo i fallimentari tentativi di mediazione da parte delle Nazioni Unite.

Lo scorso giugno, i rappresentanti delle due parti avevano tenuto dei colloqui indiretti durante un round di negoziati delle Nazioni Unite. Nel mese di dicembre, un altro giro di colloqui in Svizzera, era stato minato dai continui combattimenti a terra. Il tentativo di continuare, a gennaio, i negoziati da parte delle Nazioni Unite è stato rinviato a causa del protrarsi del conflitto. L’attuale assenso di entrambi le parti di andare verso colloqui diretti potrebbe essere visto come un tentativo da parte l’Arabia Saudita di accogliere le richieste degli Houthi.

Le Nazioni Unite stimano che più di 6.000 persone sono state uccise nello Yemen dall’inizio del conflitto, quasi la metà sono civili. Milioni anche sono stati obbligati a lasciare le proprie case e stanno lottando per sopravvivere in un Paese che era, già prima della guerra, il più povero nella penisola arabica.

La coraggiosa lotta delle donne: per non dimenticare Berta Cáceres

di Elena De Zan, Cospe

Non è facile essere donna leader dei movimenti di resistenza indigena. In una società incredibilmente patriarcale le donne sono estremamente esposte, devono affrontare circostanze molto rischiose, campagne maschiliste e misogine. Il machismo si trova in ogni aspetto dell’esistenza. Questa è una delle cose che può più pesare nella scelta di abbandonare la lotta”: queste sono le parole che Berta Cáceres pronunciava poco meno di un anno fa in un’intervista rilasciata a Eldiario. Parole di consapevolezza della difficoltà di essere non solo un’attivista, ma soprattutto una donna in lotta contro tanti poteri forti, primo fra tutti quello maschile. Nonostante le avversità e la paura Berta però ha continuato a lottare, fino al giorno della sua morte, avvenuta pochi giorni fa: il 3 marzo, verso l’una di notte (19 ora italiana) è stata assassinata mentre dormiva nella sua abitazione a La Esperanza, da uomini armati non identificati.

Berta Cáceres era una popolare leader ambientalista, attiva da oltre 20 anni nell’organizzazione COPINH (Consejo Cívico de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras) fiera difenditrice dei diritti dei popoli indigeni e dei piccolo agricoltori, che ha dedicato la sua vita alla difesa della terra, opponendosi alla violenza e a tutte le forme di dominazione, dal capitalismo, al patriarcato al razzismo.

Le sue lotte per una maggiore giustizia sociale, in difesa dell’ambiente e dei diritti umani (in particolare contro la privatizzazione e lo sfruttamento dei fiumi e delle miniere da parte di multinazionali) hanno ispirato non solo gli attivisti locali, ma anche quelli dell’America latina e di tutto il mondo tanto da ricevere nell’aprile 2015 il “Goldman price”, uno dei premi più prestigiosi a livello mondiale per l’attivismo ecologista.

La morte di Berta è stata una tragedia annunciata: più volte ha ricevuto minacce di stupro, di linciaggio e di morte non solo nei suoi confronti, ma anche rivolte ai suoi familiari.

Berta non è l’unica attivista assassinata in Honduras, la sua stessa sorte è infatti toccata a molti altri militanti: come si evince dal rapporto “¿Cuántos más?“dell’ONG Global Witness dal 2002 al 2014 sono stati 111 gli attivisti ambientali uccisi. Di questi molti erano attivisti vicino a Berta: nel 2013 in Honduras sono state ammazzate tre donne che lottavano accanto a lei contro la diga di Agua Zarca sul fiume Gualcarque e solamente la settimana scorsa Cáceres ha denunciato l’uccisione di quattro attivisti indigeni nel silenzio generale. Ma secondo l’organizzazione honduregna ACI-PARTICIPA (Asociación para la participación ciudadana en Honduras) più del 90% delle morti e delle violenze rimangono impunite.

Proprio come Berta, altre donne in tutto il mondo rischiano la vita per essersi opposte alle ingiustizie, ai soprusi alle violenze di genere. In molti Paesi le donne vengono ancora discriminate, subiscono violenza fisica e psicologica a causa di retaggi di tradizioni, culture e società maschiliste.

COSPE ha deciso di lottare al fianco di queste donne, promuovendo i loro diritti per combattere insieme contro ogni forma di violenza di genere e sostenendo associazioni e gruppi di attiviste in tutto il mondo: dalla Tunisia all’Egitto, dalla Palestina all’Afghanistan. Qui in particolare, dove come per Berta essere attivista e donna costituisce un doppio pericolo, COSPE collabora con l’associazione Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan (HAWCA) che fornisce assistenza legale e fornisce protezione alle donne nei Centri antiviolenza a Kabul ed Herat e sostiene une rete di attivisti, difensori dei diritti umani, ad alto rischio.

 

Turchia, il governo assume il controllo del quotidiano indipendente Zaman

di Riccardo Noury

Il governo del presidente Erdogan sta asfaltando la libertà d’infomazione.
Non c’è altro modo di definire quanto sta accadendo in Turchia, dove una settimana fa è stata chiusa l’emittente televisiva IMCTV – l’unico canale nazionale che riportava un punto di vista non ufficiale sulle operazioni militari e i coprifuoco nel sud-est del paese – e dove il 4 marzo un tribunale di Istanbul ha posto sotto amministrazione controllata il quotidiano indipendente Zaman. …Leggi tutto »

Regeni, in attesa di verità nuove notizie e smentite dall’Egitto

 

di Antonella Napoli

Sul caso Regeni continuano ad alternarsi ricostruzioni inattendibili e indiscrezioni fondate su testimonianze solide. La famiglia di Giulio resta chiusa nel proprio dolore e attende quelle risposte che noi di Articolo 21, insieme ad Amnesty International e attraverso la rete di “Illuminare le periferie”, continueremo a sollecitare, come non ci stancheremo mai di chiedere verità e giustizia. …Leggi tutto »

Nuovo Governo nella martoriata Repubblica Centrafricana

di Luca Mershed, Italians for Darfur

La Repubblica Centrafricana, un Paese senza sbocco sul mare che conta 4,6 milioni di persone, sembra pronta per un nuovo inizio. Gli elettori sono andati alle urne inizialmente il giorno di San Valentino e poi il 20 febbraio per scegliere il loro Presidente. I rapporti sottolineano che il tutto processo elettivo è stato condotto interamente in tranquillità. …Leggi tutto »

”Soluzione finale” in Darfur

di Antonella Napoli, Italians for Darfur

“Il governo del Sudan ha avviato in Sudan la ‘soluzione finale’ nel silenzio colpevole della comunità internazionale”. Questa la testimonianza di una Niemat Ahmadi, fuggita dal Sudan dopo aver ricevuto due volte minacce di morte, e rifugiata negli Stati Uniti dove ha fondato un’organizzazione internazionale per i diritti umani, Darfur women action in Commissione Diritti Umani e in conferenza stampa al Senato della Repubblica in occasione della presentaziione del Rapporto 2016 sulle crisi in Sudan di Italians For Darfur. …Leggi tutto »

Rapporto Sudan 2016, per illuminare le crisi dimenticate

I nuovi bombardamenti che in tre settimane hanno causato 25 mila nuovi sfollati e centinaia di vittime, la ripresa degli stupri di massa in Darfur, usati come arma di guerra, e l’escalation della repressione contro la libertà di stampa in tutto il Sudan. Questi i principali punti contenuti nell’annuale rapporto di ‘Italians for Darfur’ che sarà illustrato giovedì 25 febbraio, alle 11, in Sala Nassiryia al Senato della Repubblica in contemporanea con il lancio della nuova campagna di sensibilizzazione sulla crisi umanitaria in Darfur, ormai dimenticata dalla comunità internazionale.

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Sospendere Schengen?

di Roberto Moisio

Cinquanta mila chilometri di confini, di cui quasi l’80% di mare. Dentro questi confini vive il 7% della popolazione mondiale, che produce il 20% del reddito mondiale e consuma il 50% del welfare globale.

Dentro questi confini vivono gli abitanti di 28 Paesi, che compongono una unione imperfetta di quello che viene chiamato “vecchio continente”.

Una Europa nervosa, impaurita, destinata ancora a ridursi quantitativamente in pochi anni, perché invecchiata , che non fa figli e che, in preda a una certa confusione mentale, tira su muri per difendersi dall’ondata di chi fugge da fame, povertà, guerra.

In questa situazione ha senso, come titolano sempre più spesso i giornali in questi ultimi tempi, “sospendere Schengen”?

Se lo sono chiesto stamani al Campus Einaudi dell’Università di Torino, docenti, ricercatori, politici e circa 200 studenti, universitari e di scuole superiori.

Innanzitutto si é cercato di fare un po’ di chiarezza sui termini della questione nell’incontro organizzato dal Dipartimento Culture, Politica e Società, diretto da Franca Roncarolo, docente di Comunicazione pubblica e politica.

Schengen é il Trattato del 1985 che sancisce la libera circolazione “interna” all’Unione Europea di persone e merci: con Schengen non è più necessario mostrare passaporti passando da uno all’altro dei Paesi Europei che hanno aderito al trattato; i voli in Europa sono voli “interni”; ha preso l’avvio il progetto Erasmus che ha permesso già ad alcuni milioni di giovani europei di integrare la propria formazione superiore nel continente; con Schengen é nata quella che i sociologi chiamano la “generazione Schengen”, giovani cioè che, a cavallo del 2000, incominciano a pensare al proprio futuro non necessariamente nel cortile di casa, che si confrontano con situazioni culturali ed economiche simili, ma diverse, che hanno in testa un “passaporto ” europeo.

Schengen é il pilastro normativo fondativo di un’identità europea, come l’euro é il collante dell’area economica continentale.

Sospendere Schengen significa tornare indietro nel tempo, alle barriere doganali, alla limitazione della circolazione di persone e merci. Significa la sepoltura del progetto europeo, nato dopo la seconda guerra mondiale per evitare nel futuro le guerre, i massacri che avevano caratterizzato i secoli precedenti e, soprattutto, la prima parte del ‘900.

C’é ancora questo rischio? Certo, basta pensare a quello che capitò non più di una ventina di anni fa, sull’altra sponda dell’Adriatico, dove ci furono conflitti ferocissimi e massacri tra popolazioni che avevano convissuto pacificamente nella allora Jugoslavia.

C’entra qualcosa Schengen con la difesa dal terrorismo? C’entra qualcosa la presenza della portaerei De Gaulle nel Mediterraneo dopo l’attentato di Parigi del novembre scorso? I terroristi finora identificati erano tutti cittadini francesi o belgi, già da tempo “dentro” i confini europei.

Ed erano terroristi organizzati, si chiede l’antropologo Roberto Beneduce, quelli che la scorsa estate facevano da palline di ping pong tra la stazione ferroviaria e gli scogli di Ventimiglia?

Difficile  immaginare organizzazioni terroristiche così  scalcagnate…

Per difendere più efficacemente l’Europa dal terrorismo e dalla criminalità, anche economica, il Gruppo Spinelli propone per bocca di Mercedes Bresso, parlamentare a Strasburgo per il PD, 5 punti, che consentano una ancor maggiore integrazione tra i 28 Paesi:

1- una politica europea unica di asilo, superando il Trattato di Dublino, che si occupa di questa materia

2- una guardia di frontiera comune, non solo nazionale, ma integrata

3- una intelligence europea (il massacro del Bataclan ha dimostrato ciò che già si sapeva, che la cooperazione tra i diversi Servizi è lacunosa e imperfetta)

4- una Agenzia di Polizia Europea

5- un sistema giudiziario europeo, sempre più integrato e un Procuratore europeo che persegua reati commessi in più Paesi, per rendere più efficace la lotta al terrorismo e, soprattutto, per contrastare la criminalità economica e le mafie che prosperano sulle differenze dei sistemi giudiziari e sui confini interni che rallentano le indagini.

Per Bresso è una sciocchezza sospendere Schengen; semmai bisogna mettere in atto, come per le cinque proposte di contrasto al crimine, tutte le possibili  iniziative politiche tendenti a una integrazione sempre maggiore, per meglio tutelare la sicurezza dei cittadini europei.

Per garantire meglio controlli e integrazione, spiega Umberto Morelli, docente di Relazioni internazionali, servono 20 miliardi l’anno. La Commissione Europea dispone di un bilancio complessivo di 140 miliardi l’anno, corrispondente all’1% del Pil continentale.

Troppo poco e per di più, nell’ultima programmazione di fondi 2014-2020, per la prima volta sono stati ridotti i fondi. Ulteriore dimostrazione della miopia strategica delle politiche di austerity. Con l’applicazione della carbon tax, tassa sull’inquinamento, si potrebbero reperire circa 35 miliardi l’anno, ma la proposta è da tempo ferma, immobile.

Morelli ricorda come invece nel 1935, sei anni dopo l’inizio della recessione economica, Roosvelt avesse quadruplicato il bilancio federale, per contrastarne gli effetti.

E come si fa a chiedere alla Grecia, che fatica a pagare le pensioni, di farsi carico da sola dei controlli alle frontiere, pena l’esclusione da Schengen?

Semmai, sottolinea Francesco Costamagna, giurista, la questione si risolve modificando il Trattato di Dublino, non Schengen, allineandosi sostanzialmente alla proposta del Gruppo Spinelli di una politica di asilo unica, europea.

Infine qualche piccolo dato, fornito da Maurizio Veglio, avvocato che si occupa professionalmente dei rifugiati, per inquadrare le dimensioni di un problema su cui scientemente mestatori xenofobi e mass media confusi non consentono valutazioni razionali, ma giocano sulle emozioni e sulle paure di cittadini sull’orlo di una crisi di nervi.

Nel 2015 sono transitati dalla Turchia verso la Germania e il Nord Europa 851 mila persone, in prevalenza siriane, richiedenti asilo, richiesta peraltro a cui, in base al diritto internazionale, è doveroso dare risposta.

153 mila in Italia, alcune migliaia in meno del 2014, di cui quasi la metà non identificati e, presumibilmente, “spariti” in altri Paesi europei, mentre in Turchia, che ha chiesto per questo 3 miliardi all’Unione Europea, vivono circa 2 milioni e mezzo di siriani in condizioni tragiche. Il Libano, che ha 4 milioni di abitanti, accoglie circa 1 milione di profughi siriani.

I termini più usati nelle varie cronache riguardanti l’immigrazione in Europa inerenti alle politiche di accoglienza sono “hot spot”, “hub” e altre tecnicalità in burocratese.

Ma l’accampamento dei profughi a Calais, che è stato mostrato poche settimane fa dalle telecamere di Sky, non sarebbe più corretto chiamarlo “campo di concentramento”?

Al seminario i ragazzi erano attenti, concentrati, perplessi. Contemporaneamente il Consiglio Europeo era riunito a Bruxelles  con la stessa questione all’ordine del giorno.

Dum Romae consulitur, Saguntum peritur“.

È proprio vero che la storia si ripete, ma quasi sempre in peggio.

 

Una nuova Costituzione in Algeria?

di Luca Mershed (Italians for Darfur)

Il Parlamento algerino ha votato l’adozione di riforme costituzionali che permetteranno al Paese di rafforzare la sua posizione democratica e introdurre dei cambiamenti chiave. Avviati dal presidente Abdelaziz Bouteflika, gli emendamenti alla Costituzione sono stati sostenuti da 499 dei 517 parlamentari -16 astenuti.   …Leggi tutto »