Archives

Oman, un post e vai in carcere

di Riccardo Noury
Nel sultanato dell’Oman basta un post per finire in prigione. A febbraio è successo due volte, a conferma che anche in questo stato della Penisola araba, dopo le “primavere” del 2011, gli spazi per la libertà d’espressione si sono fortemente ristretti, anche a seguito di una più rigorosa applicazione dell’articolo 61 della Legge sulle telecomunicazioni del 2002.

Questo articolo punisce “chiunque trasmetta, attraverso i mezzi di comunicazione, un messaggio che viola l’ordine pubblico o la morale pubblica“.

L’8 febbraio il tribunale di Sohar ha condannato Hassan al-Basham, ex diplomatico e parlamentare, a tre anni di carcere per “uso di Internet al fine di arrecare pregiudizio ai valori religiosi” e “insulto al sultano” Qaboos bin Said al Said. Aveva scritto qualche post del tutto innocuo su Facebook e Twitter.

Al Basham, oltre alla carriera istituzionale, ha un passato di difensore dei diritti umani e di promotore di campagne per la scarcerazione dei prigionieri di coscienza. Ha preso parte alla “primavera” del 2011, le cui richieste in Oman erano la creazione di nuovi posti di lavoro e la fine della corruzione.

Il 17 febbraio il tribunale di Salalah ha emesso una condanna a sei mesi di carcere nei confronti dell’artista e ricercatore Sayyd Abdullah al-Daruri, giudicato colpevole di “turbativa dell’ordine pubblico” e “sedizione” per aver pubblicato su Facebook un post in cui sottolineava la sua appartenenza alla regione del Dhofar, teatro negli anni Sessanta e Settanta di una vasta rivolta. Nel suo post, al-Daruri sollecitava “l’unione tra Oman e Dhofar in una sola nazione che sarà chiamata Sultanato unito“.

L’Oman è uno dei luoghi delle periferie del mondo del tutto spenti. Di questa oscurità approfitta il Sultano Qaboos per mandare in carcere i suoi oppositori.

Profondo Sud

La crisi in Sud Sudan a Speciale Tg1. Domenica 28 febbraio su Rai1 alle 23.35 andrà in onda “Profondo sud” di Enzo Nucci, il corrispondente Rai da Nairobi. Quarantamila persone stanno morendo di fame mentre un quarto della popolazione ha urgente bisogno di aiuti alimentari. Eppure il Sud Sudan è ricco di acqua e terreni coltivabili nonché di petrolio. Ma la nazione più giovane del mondo da tre anni è squassata da una guerra civile che ha già causato decine di migliaia di vittime e milioni di profughi.

Profondo sud” è un viaggio nel paese nato nel 2011 dopo quasi 50 anni di sanguinosa guerra con il Sudan islamico. Le speranze che accompagnarono la nascita di questa nazione si sono infrante per lo scontro tra i due principali leader in lotta per il controllo delle ricchezze che non esitano ad arruolare nelle proprie file anche i bambini soldato. Un conflitto che sta assumendo sempre più connotati etnici e razziali, proprio come è già successo nel 1994 in Rwanda. Secondo le Nazioni Unite la crisi umanitaria in Sud Sudan è paragonabile a quella che stanno vivendo le popolazioni di Siria e Repubblica Centrafricana. La Chiesa cattolica sta tentando di riportare la pace, ma i dieci accordi di “cessate il fuoco” fino ad oggi sottoscritti sono stati puntualmente violati.

Parla il presidente del Puntland

di Shukri Said

Sulle problematiche che si stanno manifestando in vista delle elezioni della prossima estate in Somalia abbiamo intervistato Abdiweli Mohamed Ali, detto Gaas, già docente di economia negli Stati Uniti. E’ stato Primo Ministro dell’ultimo Governo Federale di Transizione in Somalia ed attualmente è Presidente della Regione semiautonoma del Puntland

D. L’attuale leadership della Repubblica federale di Somalia guidata da Hassan Sheikh Mohamud ha riproposto per le elezioni dell’estate 2016 il vecchio sistema elettorale denominato “4.5 (four point five)” che suddivide le cariche del potere assegnandone una per ciascuno dei quattro clan ritenuti principali (pur non avendo tra di loro lo stesso peso) e metà ai clan minoritari unitariamente considerati. E’ un sistema che lei conosce bene avendo contribuito a mantenerlo per l’elezione del governo attualmente in carica che ha definitivamente sostituito il periodo della transizione di cui Lei è stato l’ultimo Primo Ministro. È vero che lei, però, non è d’accordo a mantenere il sistema “4.5” anche per la prossima tornata elettorale?
R. È verissimo. Siamo nettamente contrari a mantenere questo sistema elettorale anche per le prossime elezioni dell’estate 2016. Prima era necessario uscire dalla transizione in modo unitario ed è per questo che il sistema “4.5”, proposto dalla comunità internazionale, è stato accettato, ma doveva essere temporaneo e doveva essere superato, in base alla road map, durante questi quattro anni di governo federale non più transitorio sostituendolo con il suffragio universale. Invece questi quattro anni sono trascorsi invano, nessuna delle riforme attese è stata varata e il superamento del sistema clanico non è avvenuto. Ricordo che il Governo attuale era stato voluto per conseguire la revisione della Costituzione provvisoria, la riconciliazione, la formazione della Corte Costituzionale, la formazione della Camera Alta cioè il Senato delle Regioni, il completamento delle amministrazioni centrali e regionali, la registrazione dei partiti politici, la formazione dell’esercito unitario somalo, la definitiva eliminazione di Al Shabab e la messa in sicurezza di tutto il Paese, il censimento della popolazione, il recupero dei beni pubblici e privati ai rispettivi legittimi proprietari, l’adozione di sistemi nazionali giudiziario, tributario, sanitario e dell’istruzione degni di uno Stato, l’inizio della ricostruzione dei beni pubblici quali strade, fognature, illuminazione, sedi di uffici. Neppure uno di questi scopi è stato raggiunto e, anzi, vi sono più focolai di scontri clanici oggi rispetto a quattro anni fa. La corruzione dilaga, la sicurezza è sfuggita di mano e a Mogadiscio ci sono uccisioni ogni giorno nonostante la presenza dei militari di AMISOM.

D. Che cosa ha di negativo il sistema “4.5” e perché secondo lei ha impedito il raggiungimento degli obbiettivi che aveva indicato la road map?

R. È un sistema che si è rivelato ingiusto e nettamente sfavorevole al popolo somalo. E’ basato sui principi clanici e non su quelli costituzionali. Aumenta la litigiosità e la concorrenza tra clan. Indebolisce e delegittima le istituzioni anziché rafforzarle. Ostacola la democrazia. Un parlamentare scelto da un saggio clanico a chi risponde? I parlamentari dovrebbero rispondere ai loro elettori. Ma quando il parlamentare viene nominato da un individuo, risponde a questo che gli ha fatto la grazia di sceglierlo tra migliaia di persone. Quindi non rende un servizio al popolo al quale non è legato da nessun vincolo.

D. In sostituzione del sistema clanico, quale sistema elettorale proponete?

R. Se non si può procedere subito con le elezioni a suffragio universale, almeno di applichi un sistema su base regionale, provinciale e distrettuale in modo che ogni parlamentare possa essere eletto nel modo più democratico possibile. Proponiamo la suddivisione del territorio somalo nelle stesse diciotto regioni in cui risultava diviso sino al 1991, anno dell’ultimo governo di Mohamed Siad Barre riconosciuto come governo unitario dalla comunità internazionale.

D. Ormai il tempo per cambiare le regole del gioco rispetto alle elezioni della prossima estate appare esiguo. Avete una proposta?

R. Noi non accettiamo che si prolunghi l’ingiusto sistema “4.5” senza che venga fissata la data in cui verrà abbandonato. La comunità internazionale, l’ONU, l’UE, l’UA, AMISOM, l’IGAD, la Lega Araba … tutti, devono stabilire la fine del “4.5” indicando una data certa per il suo abbandono.

D. Accettereste che il sistema “4.5” venisse abbandonato fra quattro anni, nel 2020?

R. Basta che venga precisato che a decorrere da una data certa quel sistema sarà abbandonato.

L’Orso d’Oro a Lampedusa

di Elisa Marincola

Il mio pensiero va a coloro che non ce l’hanno fatta”. Gianfranco Rosi, regista di Fuocoammare, ha salutato così la consegna dell’Orso d’Oro, il massimo premio della Berlinale, la rassegna cinematografica berlinese che ha dedicato questa 66esima edizione proprio al dramma dei profughi, che il documentarista ha raccontato, seguendo per più di un anno le vicende dei superstiti sbarcati sull’isola, la loro disperazione, le difficoltà degli isolani e l’accoglienza che, nonostante tutto, offrivano a quelle famiglie sopravvissute a guerre, violenze e, infine, al mare. Rosi ha voluto con sé sul palco Pietro Bartolo, il medico lampedusano che offre le prime cure a quanti sbarcano. Durante le lunghe riprese e il montaggio, tutto realizzato a Lampedusa, lo ha inserito tra le voci narranti del film. E Bartolo spiega così le radici di quella generosità: “Noi siamo un popolo di pescatori e i pescatori accettano tutto quello che viene dal mare”.
Film eccitante e originale, la giuria è stata travolta dalla compassione. Un film che mette insieme arte e politica e tante sfumature. È esattamente quel che significa arte nel modo in cui lo intende la Berlinale. Un libero racconto e immagini di verità che ci racconta quello che succede oggi. Un film urgente, visionario, necessario“: è il giudizio letto dalla presidente della giuria, Meryl Streep. Ma Fuocoammare è stato davvero il vincitore dell’intera rassegna, raccogliendo anche i premi di tre delle giurie indipendenti, tra cui il riconoscimento della sezione tedesca di Amnesty, ma anche il favore dei lettori del quotidiano Berliner Morgenpost. Un segno che non solo la critica, gli addetti ai lavori o le organizzazioni umanitarie, ma anche gli spettatori tedeschi hanno compreso il valore di un’opera che racconta una realtà dura, l’incontro tra fuggitivi e popolazioni locali, un incontro faticoso e drammatico che sta mettendo a dura prova la tenuta dell’intera Europa come si è formata da settant’anni a questa parte.
A essere premiate sono anche l’isola, porta d’Europa nel pieno del Mediterraneo, e la sua sindaca Giusi Nicolini, che continua a battersi per salvare vite e, insieme, mantenere unita e solidale una comunità in difficoltà.
L’Orso d’oro consacra a sua volta anche un genere, il documentario, che proprio Rosi ha saputo portare al grande pubblico, prima con “El Sicario”, sul narcotraffico in Messico, e poi con “Sacro Gra”, vincitore a Venezia nel 2013. Un genere che racconta la realtà attraverso i suoi protagonisti autentici, lasciando il segno sullo stesso regista, che prima di lasciare il palco ha lanciato un richiamo alla platea: “Per la prima volta l’Europa sta discutendo seriamente alcune regole da fissare, io non sono contento di ciò che stanno decidendo. Le barriere non hanno mai funzionato, specialmente quelle mentali. Spero che questo film aiuti ad abbattere queste barriere“.

Con Umberto Eco perdiamo uno dei più grandi intellettuali contemporanei

di Anna Cerofolini

Che io abbia scritto o no, non fa differenza. Cercherebbero sempre un altro senso, anche nel mio silenzio. Sono fatti così. Sono ciechi alla rivelazione. Malkut è Malkut e basta.
Ma vaglielo a dire. Non hanno fede.
E allora tanto vale star qui, attendere, e guardare la collina.
È così bella.
Umberto Eco

Umberto Eco è morto. Il professore, filosofo e scrittore, figlio di Giulio e Giovanna Bisio aveva 84 anni.
Nato ad Alessandria il 5 gennaio del 1932 si laurea in filosofia nel 1954 all’Università di Torino con Luigi Pareyson e una tesi sul Problema estetico in Tommaso d’Aquino, poi accresciuta e pubblicata nel 1970 dalla casa editrice Bompiani.

Il professor Eco ha segnato la nostra esistenza, quarantacinque libri, l’ultimo Numero zero, analisi spietata sul mondo della carta stampata, è il racconto di una redazione di cialtroni intenta ad alimentare la macchina del fango, opera di un “giornalista pubblicista” come qualche giornalista professionista gli aveva incautamente fatto notare.

Da Dedalus, pseudonimo joyceano con cui firmava per Il Manifesto, alla segreteria artistica di una RAI che non esiste più e presso la casa editrice Bompiani, come senior editor, Eco ha scritto per Il Corriere, La Repubblica e L’Espresso, alternandosi una volta a settimana con Eugenio Scalfari nella rubrica “La bustina di Minerva”.

Il mio primo lavoro è stato il libraio. So dunque quanto fanno male le super concentrazioni alla diffusione dei libri“, così Umberto Eco aveva commentato nel giorno della nascita di “La Nave di Teseo”, la nuova case editrice ideata da Elisabetta Sgarbi e finanziata dagli scrittori, il pericolo della dittatura editoriale di Mondazzoli sull’autonomia della Bompiani così come l’aveva immaginata Valentino Bompiani nel 1929, anno della fondazione.

Chi ti prende alla gola è la tua amica, la vita“. Le meraviglie del linguaggio dagli Elementi di semiologia di Barthes ai movimenti dello sperimentalismo e della neo-avanguardia del Gruppo 63, all’amore per il pensiero estetico medioevale sino alle poetiche post-moderne dei fumetti e la pop Art come in Apocalittici e integrati, su comunicazione di massa e analisi della cultura di consumo. Nel 1962 esce Opera aperta edito da Bompiani, in cui l’autore riflette sull’opera d’arte non solo letteraria e spazia dalla musica seriale a Joyce, e nel 1963 Diario minimo, raccolta di brevi saggi su osservazioni di costume e parodie ispirate dal’attualità, tra cui lo scritto Fenomenologia di Mike Bongiorno.

Nel 1970 Lector in fabula, analisi del romanzo come “macchina pigra”, opera nutrita dall’analisi della semiosi illimitata di Peirce: “Ecco, ora si rompono gli indugi e questo lettore, sempre accanto, sempre addosso, sempre alle calcagna del testo, lo si colloca nel testo. Un modo di dargli credito ma, al tempo stesso, di limitarlo e di controllarlo“.

Umberto Eco elabora la genesi di un doppio codice di lettura anche nei romanzi, dal Nome della rosa, edito da Bompiani nel 1980, avventura investigativa di Guglielmo da Baskerville, labirinto di infiniti segni nella ricerca continua della verità non solo nell’interpretazione ermeneutica dei testi, ma anche dell’intera esistenza umana: “stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus, la frase ultima del romanzo si ispira a un verso del De contemptu mundi di Bernardo Cluniacense; al Pendolo di Foucault (1988), L’isola del giorno prima (1994), Baudolino (2000), La misteriosa fiamma della regina Loana (2004) e Il cimitero di Praga (2010); opere fruibili per l’incolto e per il filologo, proiettando la divisione “alto-basso” in una mescolanza innovativa.

Sposato dal settembre 1962 con la tedesca Renate Ramge, insegnante d’arte, due figli, Stefano e Carlotta e due nipoti, il professor Umberto Eco ha inventato le “interviste impossibili” a personaggi di un tempo perduto in cui la critica e il giudizio però si fanno reali e ha insegnato che la risposta più illuminata è spesso da ricercare con umiltà nel passato; a “cos’è la filosofia“, ad esempio, Aristotele nella Metafisica rispondeva: “è la risposta a un atto di meraviglia“.

Addio Professore, ci recheremo ancora nelle biblioteche per scoprire delle pagine di cui ignoravamo l’esistenza, righe che si riveleranno fondamentali per il nostro vivere e non dimenticheremo mai la bellezza di imparare qualche verso o una poesia a memoria.

La rivolta dimenticata del Bahrein, cinque anni fa

di Riccardo Noury*

Abdelkarim al-Farkhawi, 49 anni, fondatore di Al Wasat, uno dei pochi organi d’informazione indipendenti del Bahrein, morì di tortura, nell’aprile 2011. Due uomini dell’Agenzia per la sicurezza nazionale, condannati per il suo omicidio, sono già tornati in libertà. Nazeeha Saeed, giornalista indipendente, nel maggio 2011 fu torturata con la corrente elettrica, picchiata con un tubo di plastica, presa a calci e pugni.  Un agente la costrinse a infilare la testa dentro il gabinetto. Indagine chiusa per insufficienza di prove.

…Leggi tutto »

Fondazione Leo Amici: Riparte da Foggia “Più sé meno io= Pace”

NUOVE TAPPE 2016 DELLA MOSTRA NAZIONALE ITINERANTE, PER EDUCARE I GIOVANI ALLA PACE, ALLA CONDIVISIONE E AL RISPETTO DELL’ALTRO DIVERSO DA SE’. IN ESPOSIZIONE LE OPERE DEL PITTORE, REGISTA E SCRITTORE, CARLO TEDESCHI. DOPO PESARO E ASSISI, APPUNTAMENTO A FOGGIA, TERAMO, MILANO E TRENTO.
…Leggi tutto »

Elogio del dubbio

di Matilde De Luca

Questa breve riflessione si apre con un quesito: perché da un lato l’uomo è così tecnologicamente avanzato, ma dall’altro si estingue con le sue stesse mani? Eppure il tanto bramato progresso ci ha fornito le competenze più disparate per dotarci dei mezzi più prestigiosi per una sempre più civile esistenza!

Noi umani siamo tanto infallibili nell’esplorazione dei nostri habitat, quanto labili nella conoscenza della nostra natura. Possiamo domare le belve più feroci, ma non sappiamo controllare i nostri stessi impulsi. Ma allora a cosa è valso tutto il nostro scoprire, inventare e costruire tra scienze, arti e tecnologie se poi il resoconto ultimo sfocia nell’autolesionismo più estremo? Come siamo giunti a questo contraddittorio inghippo evolutivo?

La risposta ci è suggerita da una scienza spesso dimenticata ma non per questo meno nobile: l’antropologia. Ogni scienza umana ha origine da una domanda, un interrogativo volto a tentare di comprendere un preciso aspetto della realtà. La domanda che l’antropologia si pone è : “Chi è l’uomo?” Questo apparentemente banale quesito racchiude al suo interno un’infinità di variabili e sfumature, che abbracciano la storia della specie sapiente, le sue peculiarità e caratteristiche ma soprattutto i suoi più radicati limiti. La consapevolezza e conoscenza della natura della nostra specie, va di pari passo con la conoscenza dell’universo che ci circonda, non può esserci completa comprensione del vero senza la conoscenza del sé, dei propri limiti e facoltà. Lo sguardo antropologico è rivolto quindi all’interno della mente umana e a tutte quelle manifestazioni socio-culturali che ne sono espressione.

Come si può rispondere dunque alla domanda “Chi è l’uomo?” L’Homo Sapiens Sapiens, volgarmente detto “Umano”, è un mammifero abitante del pianeta Terra da circa 250-200.000 anni. Si caratterizza rispetto alle altre specie per la postura eretta, una scatola cranica discretamente sviluppata e l’uso del cosiddetto “pollice opponibile”; principale dote dell’Umano è custodita nella facoltà di plasmare il proprio habitat, grazie alla creazione di tecnologie. Quest’ultimo aspetto risulta essere il punto centrale dell’esperienza umana: la possibilità di creare artefatti, ci ha conferito grande potere di crescita e dominio sulle altre specie. Proprio questo potere formidabile costituisce la chiave per comprendere la natura del nostro agire.

Pensate per un attimo alla storia dell’uomo sulla Terra, partendo dalla giungla preistorica da cui nascemmo, così indifesi e fragili rispetto a molte altre creature, la nostra sola forza all’alba dei tempi si rivelò essere l’unione. Ci raggruppammo in tribù per limitare la nostra vulnerabilità e nel tempo questa unione stimolò le nostre facoltà cerebrali, inducendoci a immaginare, ad usare la nostra creatività per sopravvivere. Invenzione dopo invenzione la scintilla evolutiva esplose nelle nostre menti come un lampo… abbagliandoci! Sembravamo niente più che implumi esserini ma uniti potevamo dar vita all’inimmaginabile. Fu così che, era dopo era, noi umani focalizzammo i nostri percorsi evolutivi sulla creazione materiale del nostro stesso mondo, come dei fanciulli che costruiscono castelli di sabbia destinati a sciogliersi tra le onde.. Chi siamo, dunque? Si potrebbe dire che oramai ci siamo a tal punto identificati in questa nostra brama creatrice, da non poter far altro che creare, produrre, generare ancora e ancora , verso un’innovazione senza fine (o verso la fine della nostra innovazione?). E’ curioso cogliere l’ambiguità di questa dinamica: abbagliati da noi stessi e dai nostri poteri, ne siamo divenuti schiavi! Da carnefici a vittime, dominati dal potere del dominio! Ma al di là della mera retorica e dei giochi di parole, è proprio qui che l’antropologia entra in campo, imponendoci di metterci in dubbio, di chiederci cosa non stia funzionando, se giunti ad un tale grado di civilizzazione siamo in verità più simili a tossicodipendenti disperati che, pur di non patire l’astinenza, scegliamo di perpetuare l’autodistruzione incessante.

L’inganno evolutivo è custodito nei nostri stessi limiti. Solo conoscendoci potremmo superarci. Ma allora, quali sono i limiti umani? La lista sarebbe infinita, anche se principalmente sono due i grandi nemici della mente sapiente: il Potere ed il Superfluo. Del Potere, inutile dire che la mente umana sia così suscettibile all’accumulo smisurato di dominio, da renderla facile preda della follia. Come il pesce fuor d’acqua soffoca, l’uomo con troppo potere sugli altri finisce con l’affogarsi con le sue stesse mani. Del Superfluo, va detto che l’uomo si è rivelato così abile nell’escogitare escamotage per raccontarsi ciò in cui vuole credere, da evitare di interrogarsi su chi sia. Ci convinciamo di aver bisogno di bisogni sempre più impellenti, inutili e deleteri. Partendo dai limiti si possono creare le condizioni per superarli. Siamo noi gli artefici delle nostre vite, fin dall’alba dei tempi, fu ciò che ci rese umani, il potere di plasmare il nostro destino, di renderci liberi, di interrogarci e risponderci osservando il cosmo. E’ giunto il tempo di evolversi, di cogliere le contraddizioni radicate in noi che ci impediscono il cammino. Abbiate dubbi. Struttureremo il nostro agire sociale partendo dal dubbio creativo come strumento di analisi dei limiti al fine di superarli! Se in questo gioco evolutivo il nostro nemico siamo noi stessi, non si può far altro che conoscerci per combatterci nel più glorioso dei modi. L’inganno è in noi e dunque in noi sta la sua soluzione.

La tua morte, Giulio, fa riflettere

di Cristiano Degano e Alessandro Martegani*

Nessuna morte è più importante di altre, ma la tua fa riflettere”. Queste parole, pronunciate con la voce rotta dalla commozione da uno degli amici di Giulio Regeni nel corso del funerale del giovane ricercatore di Fiumicello, riassume un sentimento condiviso da tutte le centinaia di persone presenti alla cerimonia, da tutto il paese, e anche da tutti i giornalisti italiani.

Anche l’Ordine dei giornalisti e l’Assostampa del Friuli Venezia Giulia, assieme alla Fnsi, erano presenti alla cerimonia che ha dato l’ultimo saluto a Giulio Regeni.

Pur non essendo “formalmente” un giornalista iscritto all’Ordine, Giulio lo era di fatto svolgendo il principale compito della nostra professione: raccontare e analizzare la verità, anche quella scomoda, e consentire ai cittadini di crearsi un’opinione consapevole.

Dottorando e autore di corrispondenze per alcuni media, ancorché sotto pseudonimo, stava realizzando al Cairo inchieste che ricostruivano molti angoli bui di quel paese e, probabilmente, proprio per questo è stato torturato e ucciso.

Una vicenda che ha unito tutto il paese proprio per quello che Giulio rappresenta: una nuova generazione di giovani cittadini che, nonostante la crisi, le difficoltà crescenti dalla società globalizzata, sta cercando di costruire il nostro futuro con competenza, passione, coraggio, non esitando a lasciare casa e affetti, e talvolta, come in questo caso, rischiando anche la vita.

Di fronte a tragedie di questo tipo dobbiamo riflettere, assumerci alcuni impegni: nell’immediato dobbiamo alimentare, con il nostro lavoro quotidiano, la ricerca della verità sugli assassini di Giulio. Soprattutto però dobbiamo ricordare sempre che è nostro dovere non lasciare soli questi ragazzi, garantendo loro la possibilità di formarsi a scuola e sul lavoro, con istruzione, condizioni di lavoro e retribuzioni dignitose, riconoscendo i loro meriti, consentendogli di fare esperienza all’estero, e poi magari di tornare per rendere migliore il nostro paese, difendendoli dalle minacce e da coloro che cercano d’impedire con ogni mezzo la libera circolazione delle informazioni.

L’impegno del sindacato, dell’Ordine e di tutti i colleghi non deve fermarsi. Rispettando le richieste di discrezione e la dignità della famiglia è nostro dovere ricordare l’esempio di Giulio Regeni con delle iniziative dedicate soprattutto a coloro che ogni giorno s’impegnano per garantire una corretta informazione ai cittadini, anche a rischio della propria vita. Ordine e sindacato dei giornalisti vogliono anche rendere omaggio a Giulio, e intendono farlo con ulteriori iniziative comuni da concordare con i suoi familiari.

 

*Cristiano Degano, Presidente Ordine dei giornalisti FVG

*Alessandro Martegani, Segretario Assostampa FVG

Nell’anno della Misericordia

 di Roberto Reale

Solo i più duri di cuore hanno dimenticato l’emozione provocata dalla foto del piccolo Aylan: il suo corpicino raccolto sulle spiagge turche da un poliziotto che pareva svestito dalla sua durezza. Un gigante buono che si muoveva sulla “spiaggia delle morte” con toccante delicatezza e pietà.

Da allora sono centinaia i bimbi annegati in un braccio di mare che divide le isole greche dalla Turchia. Ma le emozioni si sono stemperate, in Siria la fuga dalle bombe e dai missili che tutto distruggono è proseguita ma la UE pensa a muri, si divide su responsabilità, soldi, modalità di intervento.

In questo contesto (più o meno documentato dai media ma rimasto ormai lontano dalle nostre coscienze relegato sullo sfondo delle nostre priorità informative) arriva dalla Gran Bretagna una notizia che sembra pazzesca.

La riferisce il quotidiano The Independent http://www.independent.co.uk/news/uk/politics/theresa-may-under-pressure-to-oppose-plans-that-could-criminalise-charities-who-help-syrian-refugees-a6858431.html . In sintesi si tratta di questo. L’opposizione al Parlamento di Londra ( fra loro il leader dei liberali ) chiede al ministro degli Interni Theresa May di opporsi a una nuova legge europea che criminalizza le Ong e i volontari che prestano assistenza ai rifugiati nelle isole greche. Messa così pare una notizia incredibile. Ma il giornale cita la bozza di un documento esistente e riferisce che nell’ultimo Consiglio dei ministri dell’Interno UE diversi partecipanti avrebbero chiesto proprio questo: di fermare i volontari, equiparare la loro attività a quella dei trafficanti.

La logica sarebbe quella di fare “terra bruciata” davanti ai profughi, costi quel che costi ( in vite umane).

“Finora non avete fatto nulla per aiutare chi fugge verso l’Europa, ora vorreste impedire a altri di soccorrerli” scrivono giustamente i parlamentari britannici alla May.

In Italia di tutta questa storia non sappiamo nulla. Da noi prevale l’attenzione per gli aspetti contabili legati alla disputa di bilancio fra il nostro governo e la Commissione europea. E’ bene però che ci sia un po’ di attenzione dell’opinione pubblica su questa vicenda: troppe volte a livello europeo sono state assunte decisioni sbagliate se non controproducenti frutto di mediazioni burocratiche fra funzionari e politici miopi o peggio. Il 10 marzo ci sarà la decisione dei ministri, sarà bene che l’informazione circoli pure da noi.

Certo è pazzesco che quel fiume di povera gente che ogni tanto intravediamo nelle cronachehttp://www.repubblica.it/esteri/2016/02/05/news/siria_migliaai_in_fuga_da_aleppo_turchia_chiude_confine-132772201/ porti al prevalere di egoismi e paure piuttosto che a un briciolo di solidarietà. La pietà è più facile riservarla a altri esodi storici, quelli che ormai non ci costano più nulla.

Certo che criminalizzare le associazioni umanitarie è proprio il massimo della nefandezza. In quella prima linea dell’Europa sulle coste greche a soccorrere degli esseri umani, cui i trafficanti hanno venduto finti giubbotti salvagente e imposto la roulette russa di traversate su barconi fatiscenti, ci sono solo loro, i volontari. Non fanno arrivare nessuno da noi: si limitano a soccorrere. E allora la domanda diventa un’altra: nell’anno della Misericordia in realtà dove stiamo andando? Notizie così sembrano dirci che c’è chi vuole portarci esattamente dalla parte opposta. E sapete come si definisce il contrario della compassione? Il dizionario Treccani ci è di aiuto: si chiama ferocia, implacabilità, inumanità, spietatezza Che brutta Europa hanno in mente alcuni. E il dramma nel dramma è che nemmeno la crudeltà servirà a raggiungere il suo scopo vero, non riuscirà certo a fermare chi non ha proprio più nulla da perdere. Rende solo peggiori tutti noi.