La rivoluzione antimafia in una bustina di sapone. Storia di Antonio, di Simmaco e del “Pacco alla camorra”

26 Dicembre 2015
di Valerio Cataldi
“Io ho paura di non essere un buon genitore per mio figlio. Ho paura di non essere un buon imprenditore per la mia azienda, per i miei soci. Queste sono le cose che mi fanno paura, non quella gente. Sono scarafaggi. Uno scarafaggio fa ribrezzo non fa paura.” Antonio strofina il piede a terra e mi guarda dritto negli occhi. Sono passati cinque mesi da quando le fiamme della camorra hanno incendiato la sua azienda di detersivi e da allora Antonio Picascia non è rimasto con le mani in mano. Ci mostra lo scheletro della Cleprin, la sua fabbrica, poi ci porta nel cuore pulsante della sua azienda che non ha mai smesso di battere, neanche quando le fiamme bruciavano tutto e il calore piegava il ferro. Entriamo nel capannone. Il segno del fuoco arriva fino al soffitto alto almeno cinque metri.  La fuliggine ha coperto tutto e l’odore di plastica bruciata è ancora penetrante. In mezzo alla sala c’è un piccolo container colorato che le fiamme non hanno neanche sfiorato. Antonio apre la porta e mostra una macchina che pompa sapone verde che la macchina sigilla in bustine monouso.
“È tutto biodegradabile, ecocompatibile ed ecosostenibile. La mafia la vinciamo con il lavoro, con prodotti convenienti per chi consuma e convenienti per il mondo che non vogliamo inquinare”. Antonio parla con orgoglio, spiega che si tratta di una idea commerciale sulla quale ha investito assieme ai ragazzi di nuova cooperazione organizzata, quelli che coltivano e fanno fruttare la terra che la magistratura ha confiscato alla camorra e che utilizzano un acronimo che una volta metteva paura Nco, la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. L’hanno trasformato e riadattato ai ristoranti Nuova Cucina organizzata, alle coop Nuova cooperazione organizzata e ora lavorano in tutto il casertano.
Mentre parliamo il cuore d’acciaio continua a pompare detersivo. Prepara monodosi di detergente a basso inquinamento che sono in vendita nei supermercati della Coop ma che in questi giorni sono in vendita nel “Pacco alla camorra”, dove “pacco” sta per fregatura. Miele, melanzane sott’olio, vino, marmellate, prodotti dalle terre confiscate alle mafie e sapone per pavimenti da una azienda che non si arrende. Un’ottima idea regalo per questo natale (ma anche per gli altri giorni dell’anno).
Dice Antonio: “la lotta alla camorra passa da questi “pacchi” che sono pieni del nostro lavoro, della nostra fatica. È questa la nostra sfida al modello di economia criminale che la mafia impone con la violenza, benvengano gli arresti e le retate, ma se non cambiamo il modello economico le mafie continueranno a vincere.”
Si può fare lotta alla camorra con una bustina di sapone? Con una bottiglia di vino, con uno scaldacollo o verdure sott’olio? La risposta è si, determinata dalla possibilità di crescita di un nuovo modo di fare impresa. Ne sono convinti i ragazzi di Nco che a Sessa Aurunca coltivano i campi confiscati al clan Moccia e si prendono cura della terra, del prodotto, del loro e del nostro futuro.
“Noi facciamo agricoltura biologica. Significa che dobbiamo seguire le piante continuamente per agire prima che la pianta si ammali perché dopo non c’è possibilità di curarla.” Simmaco ci spiega cosa significa  prendersi cura della pianta, proteggerla, farla crescere. Si chiama prevenzione e funziona sulla terra contro le malattie delle piante, come sulla società contro la malattia delle mafie. Simmaco e gli altri ragazzi lavorano con determinazione sui campi confiscati alla camorra, nonostante il fuoco arrivi anche qui e sia capace di fare vere e proprie acrobazie. A Teano le fiamme della mafia sono state capaci di correre su una linea dritta, sul confine tra terra privata e terra confiscata ai mafiosi. Hanno bruciato solo il pescheto coltivato dai ragazzi di Nuova cooperazione organizzata sul terreno confiscato ai mafiosi. Gli alberi privato sono ancora verdi e rigogliosi, a pochi metri dal pescheto carbonizzato.
“Noi siamo arrivati nel gennaio 2009. Appena dopo la consegna delle chiavi abbiamo subìto il primo atto vandalico: ci hanno bruciato l’impianto elettrico, sfondato le finestre, buttato a terra dei muri. I primi quattro mesi abbiamo dormito nei campi, per proteggerli. Da allora hanno continuato con questa strategia che non li porta da nessuna parte. Penso che abbiano ben capito che noi da qua non ce ne andiamo.” Simmaco Perrillo ha iniziato a lavorare nei campi stravolgendo ogni regola: ha preso campi confiscati alla camorra e ci ha portato a lavorare gli internati degli ospedali psichiatrici giudiziari. Le terre che nessuno voleva coltivate da persone che nessuno voleva. Ha scommesso due volte ed ha vinto. Hanno vinto. La sua cooperativa si chiama Al di la dei sogni. “La nostra è una alternativa culturale, economica e sociale ad un modello di economia criminale che si è sviluppato da più di trenta anni in maniera forte su questo territorio.”
Il lavoro che non c’è si può costruire sulla terra sottratta alla mafia.
Questa è terra di lavoro, casertano. Ogni estate arrivano centinaia di ragazzi da tutta italia per collaborare, aiutare a costruire il lavoro, l’alternativa alle mafie.
“La Cleprin è importante perché è il primo caso di un imprenditore che ha fatto delle scelte, dice Simmaco. Ha fatto inserimento lavorativo, ha deciso di denunciare. È la dimostrazione che si può fare impresa in questo modo.” Ora sono partner Cleprin e Nuova cooperazione organizzata in una operazione commerciale che sfida la mafia sul terreno economico e su quello culturale.
Antonio Picascia è un imprenditore. Dice di non essere una persona importante e di non essere coraggioso. Dice di essere solo un imprenditore che vuole lavorare e vivere del suo lavoro. Vive di quella determinazione di normalità che recentemente ha ricevuto minacce di morte e da allora vive sotto scorta.  “Noi siamo le terre di don Peppe Diana, siamo Campania felix, Campania fertilis. Noi non viviamo nelle caverne. Non dobbiamo pagare il pizzo a nessuno, siamo cittadini, dobbiamo pagare le tasse. L’incendio della mia fabbrica non è stato un atto di forza, ma un atto di debolezza. Le scelte che bisogna fare sono semplici: giustizia, legalità, coscienza.”