di Antonella Napoli, Italians for Darfur
“Il governo del Sudan ha avviato in Sudan la ‘soluzione finale’ nel silenzio colpevole della comunità internazionale”. Questa la testimonianza di una Niemat Ahmadi, fuggita dal Sudan dopo aver ricevuto due volte minacce di morte, e rifugiata negli Stati Uniti dove ha fondato un’organizzazione internazionale per i diritti umani, Darfur women action in Commissione Diritti Umani e in conferenza stampa al Senato della Repubblica in occasione della presentaziione del Rapporto 2016 sulle crisi in Sudan di Italians For Darfur.
Il 26 febbraio del 2003 un gruppo di ribelli assaltava una base militare ad Al Fasher, nord Darfur. Furono portate via armi e mezzi dell’esercito del Sudan che, su ordine arrivato da Khartoum, la Capitale, reagì all’attacco colpendo alcuni villaggi sospettati di dare rifugio agli oppositori del presidente Omar Al Bashir. Centinaia le vittime in poche ore, la maggior parte civili.
Fu così che la comunità internazionale apprese del conflitto in Darfur, quello che Mukesh Kapila, all’epoca dei fatti coordinatore dei diritti umani in Sudan per le Nazioni Unite, definì “la crisi umanitaria più grande del mondo”.
Gran parte dei media, in Italia e non, hanno descritto la natura del conflitto, semplificandola, come uno scontro tra milizie nomadi arabe a cavallo, i famigerati “janjaweed” armati dal governo centrale di Khartoum, e le popolazioni stanziali di origine africana, per lo più dedite all’agricoltura. Una visione che si è creduto potesse essere più appetibile per il grande pubblico, ma la copertura del conflitto in questi lunghi 13 anni non ha mai conosciuto un grande successo, tanto da non essere mai stato scalzato dalle prime posizioni delle classifiche delle crisi umanitarie dimenticate al mondo.
In realtà il conflitto, sociale ancor prima che militare, nasce negli anni 80, quando lungo tutto il Sahel si affermava l’arabismo, la supremazia degli arabi in Africa, ed è molto più complessa di quanto appaia. Le discriminazioni a tutti i livelli verso gli “africani”, principalmente Fur, il 30% della popolazione totale, gli Zagawa, il 10 %, e i Masalit del Darfur, si susseguivano incalzanti fino a portare alla presa di posizione di un gruppo ribelle anonimo, il cui messaggio viene diffuso su larga scala attraverso il “Black Book”, libro con il quale si denunciavano, con tabelle ed esempi circoscritti, le ingiustizie subite nella società e nella politica sudanese da parte delle etnie “nere”.
In sostanza si rilevava che la popolazione sudanese araba, l’8 %, gestiva da sola, e lo fa tuttora, le sorti di un intero Paese. Inizia così la lotta, mai cessata, tra centro e periferie del Sudan, per la detenzione o spartizione del potere, politico e, ancor più, economico che ben presto si trasforma in conflitto armato.
A distanza di 13 anni dall’inizio del conflitto, la situazione nella regione occidentale del Sudan rimane di grande instabilità.
Nonostante il conflitto su larga scala sia stato circoscritto, sacche di resistenza della ribellione in Darfur hanno continuato a contrapporsi alle Forze armate del governo sudanese che prosegue la campagna di bombardamenti e di attacchi contro le roccaforti dei ribelli del Sudan Liberation Movement guidato da Wahid al Nur.
Nelle ultime tre settimane 124 villaggi sono stati distrutti , 73mila persone sono fuggite dai bombardamenti e dai combattimenti tra le forze governative e i ribelli nella regione di Jebel Marra e le vittime sarebbero almeno 3mila, ma al momento non è possibile avere stime certe.
L’esplosione delle violenze iniziate lo scorso 15 gennaio nell’ampia area a cavallo di Sud, Nord e Centro Darfur, e roccaforte del Sudan liberation army, hanno portato al peggiore sfollamento di civili degli ultimi 8 anni. Un convoglio di 24 camion con aiuti di emergenza è arrivato lo scorso 10 febbraio nell’area di Sortoni, Nord Darfur, dove si sono accampati gli sfollati – il 90% dei quali sono donne e bambini – portando forniture mediche, tende e generi di prima necessità per la popolazione civile che ha cercato rifugio vicino una base della missione di pace ONU-Unione africana in Darfur (UNAMID) dopo aver camminato per miglia.
Alcuni di loro sono riusciti a portare con sé i loro averi più importanti a dorso di asini o cammelli, ma la maggior parte è stata costretta a fuggire velocemente dopo che i villaggi erano stati raggiunti dalle ostilità e quindi non hanno avuto il tempo per raccogliere oggetti o cibo.
Le Nazioni Unite si sono attivate per garantire un accesso immediato, sicuro e senza restrizioni agli aiuti a tutte le persone in stato di bisogno, ovunque si trovino. Un esodo di tale portata, in così poche ore, i caschi blu delle Nazioni Unite non lo avevano mai affrontato.