L’Italia e la libia tutti i rischi di un intervento

22 Febbraio 2016

di Tavola della pace
Il nostro Paese corre un grosso rischio in un eventuale intervento in Libia: il quadro politico locale resta confuso, la catena di comando è incerta, le incognite e le variabili sono numerose, la possibilità di perdita di vite umane sul terreno e tra la forza militare internazionale è molto elevata, le alleanze infine fanno riferimento a obiettivi e agende differenti. E’ quanto emerge da un documento presentato nei giorni scorsi a Udine all’interno del seminario nazionale “Conoscere e spiegare le guerre dei nostri giorni” organizzato dalla Regione Friuli Venezia Giulia, dall’Ufficio Scolastico Regionale per il Friuli Venezia Giulia, dal Coordinamento Nazionale e regionale degli Enti Locali per la pace e i Diritti Umani, dalla Tavola della pace e dal Centro di accoglienza Ernesto Balducci di Zugliano.

Preparato per la Tavola della pace da un gruppo di ricercatori, studiosi, giornalisti con una lunga esperienza in Libia e alla luce degli ultimi avvenimenti in drammatico divenire, il documento è accompagnato da un’intervista ad Angelo Del Boca, registrata a Torino martedì scorso nella quale lo storico dell’Italia coloniale, già contrario al conflitto che ha spodestato Gheddafi, si dice certo di un fallimento se l’Italia partecipasse a un’iniziativa armata unilaterale. Per Del Boca, così come per il documento, non ci sono le condizioni, politiche e militari, per un intervento dagli obiettivi confusi e che, dice Del Boca, richiederebbe l’impegno di «almeno 300mila soldati».


(Intervista allo storico Angelo Del Boca realizzata da Emanuele Giordana e Alessandro Rocca)
Il documento, frutto di un lavoro durato alcuni mesi e arricchito dall’esperienza diretta e recente sul campo di alcuni giornalisti, ha analizzato lo scenario attuale – al di là delle considerazioni etiche o ideologiche – per capire in che quadro si muoverebbe un eventuale intervento militare, agitato da mesi come spettro ed elemento di pressione e da molti ritenuto imminente: anche attraverso azioni mirate unilaterali in un contesto dove non è ancora chiaro né chi avrebbe in mano le redini della catena di comando né quale sarebbe il ruolo del nostro Paese.

Il documento analizza tre punti chiave.

Uno scenario nel quale si mescola il desiderio di stabilizzare la Libia con la necessità di mettere in sicurezza le aree petrolifere e per controllare il flusso dei migranti cui non è estraneo un movimento criminale di commercianti di vite umane. Uno scenario nel quale il nuovo governo per ora sulla carta (che potrebbe richiedere un intervento esterno) è molto debole e isolato e non accettato completamente nemmeno dai due governi di Tobruk e Tripoli.

Le cose si complicano per la presenza di Daesh, per la fluttuazione delle alleanze interne al Paese e per la possibile capacità di attrazione, in caso di conflitto, del brand jihadista.

Il documento infine mette in guardia sul problema del consenso dell’opinione pubblica libica in caso di intervento esterno e sulle dinamiche politico-militari che questo scatenerebbe.

Al secondo punto si analizza l’impegno militare in caso di conflitto con una stima di impiego per l’Italia di circa 6mila uomini. Il documento sottolinea che al momento non sono chiari gli obiettivi, la struttura della catena di comando, l’effettivo coordinamento delle possibili forze in campo e mette in guardia sul possibile sfaldamento di entrambi i fronti (Tripoli e Tobruk) con conseguente polarizzazione su posizioni non conciliabili di fazioni e gruppi sempre meno uniti (oltre alla già citata variabile Desh).

Inoltre fa presente il rischio connesso a un intervento militare a partecipazione occidentale tout court che alimenterebbe il fenomeno di un volontarismo jihadista e al coinvolgimento diretto di Paesi che – potenzialmente a rischio di attenzione da parte del nuovo terrorismo insurrezionale (Tunisia, Algeria ed Egitto) – potrebbero ritrovarsi in una situazione pericolosa che li danneggia. Il documento ricorda infine che ancora non sono chiari obiettivi e strumenti per raggiungerli, non è chiaro il ruolo e il coinvolgimento dei Paesi partner e delle organizzazioni internazionali e regionali, oltre a tempi e costi di un’operazione che rischia di essere di medio-lungo periodo e il rischio calcolato in numero di morti che gli stati europei – e tra questi l’Italia – saranno disposti ad accettare.

Il terzo punto riguarda invece le alleanze internazionali: fluttuanti, con obiettivi diversi e con un diverso rapporto con il Paese. In questo quadro confuso, il documento ricorda che gran parte di questi Paesi fanno anche parte della filiera del commercio delle armi.