Sono passati ormai due anni e mezzo e il fotoreporter egiziano Mahmoud Abu Zeid, meglio noto come Shawkan, attende ancora il processo. L’ultimo rinvio risale al 6 febbraio: se va bene, la prima udienza si terrà a metà marzo.
Shawkan è in carcere del 14 agosto 2013. La sua prolungata detenzione (è l’unico operatore dell’informazione agli arresti da oltre 850 giorni) viola lo stesso codice di procedura penale egiziano che limita a due anni la durata della detenzione preventiva.
Secondo Amnesty International, Shawkan è un prigioniero di coscienza. La sua colpa è di aver fotografato, per conto dell’agenzia britannica Demotix, la brutale repressione con cui le forze di sicurezza egiziane si abbatterono su un sit-in organizzato dalla Fratellanza musulmana in piazza Rabaa al-Adawiya, al Cairo per protestare contro la deposizione di Mohamed Morsi. Quel giorno, il 14 agosto di tre anni fa, i morti furono centinaia.
Nell’aprile 2015, Shawkan ha scritto una drammatica lettera ad Amnesty International, denunciando i pugni, le bastonate e i calci ricevuti in carcere. Una volta lo hanno chiuso per otto ore all’interno di un camion, con la temperatura oltre i 30 gradi, senza cibo e acqua.
Shawkan non avrebbe dovuto trascorrere neanche un minuto in carcere. Per lo meno, dato che in carcere ha contratto l’epatite B e che gli vengono negate le cure, dovrebbe essere rilasciato per ragioni di salute. Su questo insistono i familiari, l’avvocato e Amnesty International.
Riccardo Noury