Spotlight, il più bel mestiere del mondo

19 Febbraio 2016

di Elisa Marincola

 

Il giornalismo, quando è fatto bene, è un gran bel mestiere. Lo abbiamo scritto decine di volte, è la base per una sana cittadinanza in grado di comprendere la realtà circostante, fare scelte consapevoli, in politica, in economia come nei consumi, nella società e nella cultura, persino nella vita affettiva; consente a chi lo svolge di conoscere mondi e persone anche molto distanti da sé, certe volte dietro l’angolo di casa, raccontare le loro storie, condividere con lettori e spettatori i loro sentimenti, fino a dar loro la voce che nella vita quotidiana non riescono a conquistare.

Ma la sua forma più alta, quando è svolta nel rispetto consapevole della deontologia e avendo sempre come obiettivo l’essere umano e l’ambiente in cui viviamo, è davvero il più bel mestiere del mondo.

Parlo del giornalismo investigativo, e di Spotlight, film candidato a sei Oscar, magistralmente diretto da Tom McCarthy e interpretato da un cast di altissimo livello, che lo riprende raccontando la vera storia di una delle più belle ed efficaci inchieste degli ultimi vent’anni almeno, che non ha portato solo fama mondiale al giornale che l’ha realizzata, ma ha salvato migliaia di piccole vittime e cambiato per sempre la coscienza di tutto il mondo.

Racconta di un direttore coraggioso e immune da qualunque spirito di sottomissione verso i poteri forti, di un editore che seppe osare andando anche contro il pubblico di riferimento e, soprattutto, di un grande team di reporter investigativi, “spotlight” appunto, la redazione “riflettore” del Boston Globe votata ad illuminare le vicende più oscure della propria città, che lo farà questa volta non in nome delle copie da vendere ma della vita dei più deboli oggetto di violenze e diritti negati. E la storia si presenta con la voce sommessa di migliaia di minori abusati da preti cattolici coperti dall’intero sistema delle gerarchie ecclesiastiche.

L’anteprima del film, appena uscito nelle sale italiane, è stata organizzata a Roma dal DIG – Documentari Inchieste Giornalismi, la rassegna che a Riccione ha raccolto il testimone dallo storico Premio Ilaria Alpi e che, entrata a far parte del Global Investigative Journalism Network, si riconferma quest’anno con una giuria internazionale diretta dal reporter britannico Gavin McFadyen, direttore del Centre for Investigative Journalism di Londra, e cinque sezioni, di cui una dedicata al data journalism.

Un’occasione anche per un confronto sulle modalità del giornalismo investigativo, da più parti richiesto e sbandierato come opportunità di crescita per redazioni e redattori in crisi di pubblico e di credibilità, ma che, come tutti i partecipanti all’incontro hanno chiarito, risponde a logiche proprie che non possono conciliarsi con ritmi e regole del racconto giornalistico quotidiano. Alberto Nerazzini, coordinatore del DIG e autore freelance di tante inchieste per programmi come  Report e Sciuscià, e Andrea Purgatori, a cui si deve, tra tanto altro, l’inchiesta più completa sulla strage di Ustica, hanno concordato sul lavoro sostanzialmente solitario, lento ed esclusivo dei nuclei d’inchiesta, nella carta stampata come in televisione, visti anche per questo come fonte di spese non sempre digerite da editori e dal resto delle redazioni.

Un’esperienza sostanzialmente condivisa anche da John Goetz, giornalista tedesco-americano già firma del Los Angeles Times e Der Spiegel, di programmi giornalistici come Sixty Minutes o il tedesco Panorama, e oggi a capo di un grande team di reporter d’inchiesta che lavora alla Süddeutsche Zeitung, in collaborazione con la televisione pubblica ARD, una nuova forma di lavoro in rete tra media con linguaggi e target molto diversi tra loro. Goetz racconta come in ogni redazione dove gli è capitato di lavorare in trent’anni di professione, il suo seguire storie e tracce con accanimento maniacale è stato spesso oggetto di scherno dai colleghi, non abituati a un prolungato lavoro sommerso e lontano dalle urgenze redazionali. Anche quando ha scoperto uno dei più grandi scandali finanziari in Germania, una storia di fondi occulti alla politica che coinvolse l’ex cancelliere Helmut Kohl. E più di recente, il suo team ha individuato la rete della Cia che dalla Germania organizzava operazioni segrete fuori da ogni controllo, tra cui centinaia di extraordinary rendition, i rapimenti di soggetti sospettati di terrorismo. Un’indagine durata due anni, con verifiche che hanno portato a una mappatura completa delle basi dei servizi statunitensi in territorio tedesco. “Il nostro team d’investigazione opera a Berlino in una ‘journalists free zone’, un’area da cui sono banditi i giornalisti tradizionali, che anche solo per la loro pratica quotidiana sono spesso troppo legati agli ambienti del potere, qualunque esso sia”, ha concluso Goetz. Un monito da cui possiamo solo imparare.