Era il 6 di maggio scorso quando Rawan Yahji, ragazza palestinese che sta studiando in Italia, è andata, insieme alle associazione Le Mafalde di Prato, a fare un viaggio di solidarietà nell’ormai tristemente noto campo profughi greco di Idomeni: 8000 persone in attesa di capire se poter andare avanti con il loro progetto di entrare davvero in Europa, ricongiungersi a familiari che già ci sono, o dover tornare indietro.
Quello che segue è il racconto di Rawan, come si viveva nel campo, quali le speranze, quali le condizioni di vita e le difficoltà quotidiane. La cronaca di oggi è però un’altra: Idomeni è stato sgomberato il 24 maggio e i profughi trasportati in diversi centri di accoglienza, molti dei quali militarizzati. Per molti lo sgombero è ancora una promessa di futuro, per altri, un sogno, quello del nord, che si allontana. Questo è il racconto di uno dei tanti “limbi” che l’Europa costruisce. Ieri Idomeni, oggi alla periferia di Salonicco.
di Rawan Yahji, COSPE
“Siamo andate come gruppo di volontarie al campo rifugiati d’Idomeni, al confine greco-macedone. Il nostro team comprendeva tre avvocatesse: Alba Ferretti di Le Mafalde, Alessia Lauri, Cinzia Brandalise, un’attivista: Mariella Pala di Le Mafalde, due interpreti, Rachelle Julienne Njanta de Le Mafalde ed io (nella foto ndr). Siamo andate per prestare assistenza presso l’info tent, la tenda allestita da volontari internazionali per aiutare quanti vivono nel campo ad accedere alle informazioni su come avanzare richiesta d’asilo e per aiutarli a stampare e fotocopiare documenti.
Nel campo c’erano migliaia di rifugiati in gran parte siriani (in numero maggiore), iracheni, afghani e pakistani. All’interno c’erano operatori di Medici Senza Frontiere, UNHCR, “Save the Children”, volontari internazionali indipendenti e molta polizia anti-sommossa greca. Il cibo non sembrava scarseggiare nel campo, ma le persone sono costrette a fare lunghe file per ricevere dei pasti caldi. La cosa peggiore, che mi ha colpito di più, è stata però la frustrazione delle persone e il loro stato di salute mentale, che si sta deteriorando con il passare del tempo senza che si trovino soluzioni diplomatiche o pratiche. Tutte le persone nel campo si dicevano soprattutto stanche di aspettare. Molti di loro dicevano di essere in attesa da 5 anni, di esser scappate dalla morte per trovare salvezza e sicurezza, mentre invece sono state accolte con porte chiuse e aiuti umanitari. “Non desidero i soldi. Voglio solo che mio figlio vada a scuola in sicurezza”. “Mio figlio ha circa 7 anni e non è mai andato a scuola. Non per colpa sua, sta sprecando l’infanzia e perdendo le sue occasioni di ricevere un’istruzione”. Queste le frasi più frequenti nell’info tent.
I processi di richiesta di asilo, ricollocamento, e ricongiungimento familiare prevedono tutti che venga fatta una telefonata via skype come primo passo. Certo, skype è gratuito ma come si pensa di garantire a persone che vivono in campi rifugiati, all’aperto, di avere cellulari o computer carichi e una connessione a internet? Molte persone nel campo non sanno neanche che l’info tent esista, e, comunque, ha un solo computer e un solo portatile nella tenda. Inoltre sebbene quasi tutti sappiano le procedure e la necessità di chiamare gli uffici immigrazione via skype, sanno anche che questi uffici non rispondono mai alle loro chiamate. Oltre a tutte queste complicazioni, gli uffici immigrazione ad Atene e Salonicco hanno solo degli orari specifici e molto corti. Quando le persone ci chiedevano cosa fare, e noi rispondevamo che avrebbero dovuto iniziare a cercare di avanzare la loro richiesta d’asilo, loro ci dicono: “Ma skype non funziona”, e ci guardavano come se non capissimo niente. E Sicuramente non capiamo niente.
La voce che erano giunte delle avvocatesse presso l’info-tent si è sparsa, così alcune persone sono accorse a far loro delle domande. Le avvocatesse chiedevano alcune informazioni per riuscire a capire la situazione in cui si trovavano. I rifugiati riuscivano a mantenere la calma finché non è stato ribadito che l’unica via legale e sicura è fare richiesta d’asilo, ricollocamento, o ricongiungimento familiare. A quel punto le loro voci cominciavano a tremare, i loro occhi a piangere. Per loro sentire queste parole equivaleva a trovare sbarrata la porta. Molti di loro erano talmente stanchi di aspettare in fila per ricevere acqua e cibo, che il solo pensiero di dover compilare dei moduli, passare un’ora al giorno a chiamare l’ufficio immigrazione e udire nient’altro che il beep, suona loro come un altro fallimento nel tentativo di uscire di là.
Molti hanno tentato a oltrepassare il confine con i trafficanti ed erano stati ricacciati indietro dalla polizia di frontiera. Em Wissam, che ci ha provato più di cinque volte ha tutti i documenti necessari per avanzare una richiesta di ricongiungimento familiare con suo marito, un richiedente asilo in Germania e ci ha raccontato la sua odissea: “Abbiamo camminato per 5 giorni, dormito nella foresta. Vogliamo solo raggiungere la Germania. Sono così stanca. I miei figli sono esausti.”
Il suo caso poteva essere risolto in 2 ore, dato che era in possesso di tutti i documenti tradotti e in regola, pronti per essere inseriti in un file dell’ufficio immigrazione tedesco, e quando le ho tradotto ciò che l’avvocato diceva riguardo alla richiesta di ricongiungimento familiare e ha menzionato skype, è scoppiata in lacrime. Le sarebbe stato facile ricongiungersi con il marito attraverso l’ambasciata tedesca di Atene, se solo fosse stata in possesso del passaporto rilasciato dal Regime siriano. Molte persone vivevano il suo stesso problema, come Y. A., che aveva tutti i documenti rilasciati e in regola in Siria tranne il passaporto. “Siamo fuggiti dal Regime Siriano perché mio marito ha disertato il Regime. Non possiamo tornare da loro a chiedere i nostri passaporti! Ci ucciderebbero!”. Un altro modo per ottenerli è attraverso l’ambasciata di Sofia, in Bulgaria, ma il costo è troppo alto (2500 per l’intera famiglia).
A molti queste complicate procedure sembrano una strategia internazionale per impedire ai rifugiati di entrare legalmente in altri paesi europei. In molti hanno ribadito che l’Europa, come la Turchia, è ipocrita e si rifiuta di rimandarli in Siria solo per salvaguardare la sua apparenza “umana” di fronte al mondo. Per poi dire “Di quale umanità stanno parlando? È questa la vita degna di un essere umano? Essere dimenticati per mesi, senza sapere dove si può finire o se si sopravviverà?”
Il processo di ricongiungimento familiare richiederebbe fino a un anno di tempo per essere resa effettiva. Una madre con tre figli non può aspettare un anno in una tenda per essere riunita con suo marito. Fatin ad esempio riesce a malapena ad arrangiarsi per arrivare a fine giornata: per ogni pasto, deve portare i suoi figli di 4, 2 e 1 anno a fare la fila per ricevere il cibo. Inoltre, Fatin non possedeva un cellulare e se voleva riuscire ad avanzare la richiesta di ricongiungimento, avrebbe dovuto recarsi all’info-tent più e più volte (dove molte altre persone saranno lì nel tentativo di chiamare l’ufficio immigrazione), insieme a tutti e tre i suoi figli, uno dei quali è ancora solo un lattante, cercando di cogliere quell’unica possibilità su mille. La maggior parte delle persone infatti non desidera richiedere asilo o protezione in Grecia. In molte sono talmente disperate da voler raggiungere altri luoghi come la Germania o la Svezia, dove hanno già parenti. Ma qui si arriva ad altri paradossi: un minore non accompagnato di 16 anni, ad esempio, ha uno zio in Svezia che non può raggiungere perché… non è in Svezia? Mi spiego meglio. Il ragazzo ha un documento secondo il quale la madre assegna la custodia allo zio in Svezia ma la Svezia non riconoscerà lo zio come tutore finché egli stesso non si troverà in Svezia, e senza il riconoscimento da parte della Svezia dello zio come tutore, il ragazzo non può allontanarsi legalmente dalla Grecia. Nonostante si sia poi rivolto a “Save the children”, l’unica reale alternativa sarà probabilmente quella di essere portato in campi governativi per minori che “assomigliano più a prigioni” o, peggio ancora, sarebbe stato rinchiuso dalla polizia in prigione, assieme a qualunque altro tipo di detenuto. Era completamente perso e impaurito, e noi non siamo stati capaci di offrirgli alcun aiuto.
La maggior parte degli uomini sono fuggiti dalla Siria perché i diversi gruppi in guerra li cercavano con lo scopo di reclutarli. Un profugo siriano con i suoi figli ci ha raccontato come ha fatto allungare i capelli dei figli maschi di come li ha costretti a comportarsi con atteggiamenti più femminili tanto da sembrare bambine ed evitare che l’ISIS li prendesse per l’addestramento militare. La maggior parte dei bambini e dei ragazzi tra i 14 e i 25 anni vengono costretti a lasciare le loro case per l’addestramento militare obbligatorio dal Regime, dai gruppi che lo combattono, o dall’ISIS. Nel campo ci è stato detto che i ragazzi vengono sequestrati, dopo di ché nessuno sa più niente di loro.
Il nostro obiettivo principale era mandare un appello urgente alla Corte Europea dei Diritti Umani con casi speciali dal campo, cosa che siamo riuscite a fare giusto prima di lasciare la Grecia. Speriamo che questo riesca a risolvere i casi e a mettere pressione alle autorità che si occupano della situazione.
Le persone che cercano rifugio in Europa e sono bloccate in Grecia sono stanche di essere considerate come un’emergenza umanitaria, ridotte a bisogni basilari come cibo, acqua, servizi igienici, tende e vestiti. So cosa significa esser costretti ad aspettare. Vedere che la propria vita è considerata inutile dal mondo, senza alcuna priorità. Che la propria salute mentale non interessa a nessuno. Non ricevere alcun aiuto e non aver alcun controllo quando si tratta della tua vita. Abbiamo lasciato molte persone nel campo con la speranza che questo possa finire. Ci vorrà, comunque, una grande partecipazione da parte dei cittadini europei perché questo accada”.