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Egitto, quanto è diffusa la tortura

di Riccardo Cristiano

Il tragico epilogo della vita di Giulio Regeni era ancora lontano sul finire del 2015, quando sul sito del Tahrir Institute for Middle East Policy si potevano apprendere notizie importanti. Primo esempio: il venditore di papiri di Luxor, Talaat Shabib, e Afify Hassan,  farmacista di Ismailia,  due egiziani dalle diverse condizioni socio-economiche, hanno avuto analogo destino. Entrambi figurano nell’elenco delle 13 morte certificate durante il mese di novembre nelle stazioni di polizia egiziane, nove di esse per torture.
Ciò viene riferito in base alla circostanziata denuncia dell’ El Nadim Center for the Rehabilitation of Victims of Torture. Quattro i decessi verificati durante una solo settimana.
Le grandi manifestazioni popolari verificatesi dopo le morti di Shabin e Hassam, sottolineano al Tahrir Institute,  hanno ricordato la grande mobilitazione dopo l’assassinio di Kaled Said nel 2010, ammazzato con brutale ferocia per strada dopo averlo prelevato da un cybercafè di Alessandria. E’ noto che per quel crimine vennero operati  due arresti.  Ma sette giorni dopo quel crimine Essam Ali Atta, condannato a due anni di reclusione per “piccoli crimini comuni” e detenuto però nel carcere di massima di sicurezza di Tora, venne torturato a morte, come riferì The Guardian, per aver tentato di farsi dare una scheda telefonica. Contro di lui fu praticata la tecnica dell’ “innaffiamento forzato”, dalla bocca e dall’ano.
 Come mai accade questo? Una risposta fornita dal Tahrir Institute è questa: malgrado altri, diversi impegni internazionali, il codice penale egiziano, all’articolo 52,  condanna la tortura solo nel caso che questa venga praticata per estorcere confessioni. La pena prevista per chi violi questa disposizione va da tre a cinque anni di reclusione. Nel caso, distinto dal codice penale, di comportamenti “crudeli”, la pena scende sotto i 12 mesi di detenzione.
Per Human Rights Watch molti tribunali hanno fatto ricorso all’articolo 17 del Codice Penale per ridurre le pene, citando preoccupazioni per la carriera dei rei.
Anche qui è il caso di fornire esempi, e le fonti lo fanno: Akram Soliman, un ufficiale condannato a cinque anni di detenzione per aver fracassato il cranio di Ragaay Soltan nel 2009, è stato nominato nel 2014  responsabile della sezione diritti umani del direzione della sicurezza di Alessandria.
Islam Nabeeh invece è stato reintegrato al Ministero dell’Interno dopo essere stato condannato a tre anni di detenzione per le torture inflitte a Emad al-Kabir.
E’ in questo contesto che Human Rights Watch può affermare: ”in base a stime ufficiali rese note dall’Associated Press nel Marzo 2014, almeno 16mila persone sono state arrestate nel corso dell’ultimo anno nella repressione dei sostenitori del deposto presidente Morsi, e di altri gruppi dissidenti. Per Wiki Thawra, a cura dell Egyptian Center for Economic and Social Rights, 80 persone sono morte in prigione nell’anno passato e più di 40mila detenute tra luglio 2013 maggio 2014.”

Verità e Giustizia per Giulio Regeni

Listiamo a lutto i nostri mezzi di informazione
#Giulio Regeni, dottorando e autore di corrispondenze per alcuni media italiani, stava realizzando al Cairo inchieste scomode che ricostruivano molti angoli bui e forse per questo è stato preso, torturato e ucciso.

Sono ancora troppe le contraddizioni e le oscurità nelle versioni fornite dalle autorità egiziane. E Come denunciano tutte le organizzazioni per i diritti umani e la libertà d’informazione, da Amnesty a Reporters sans Frontieres, in Egitto centinaia di attivisti, sindacalisti, blogger, intellettuali, vengono arrestati ogni giorno, spesso torturati, centinaia di loro …Leggi tutto »

La Meglio Gioventù, lasciata sola. Verità e giustizia per Giulio Regeni!

di Paola Caridi

Riprendiamo dal sito www.invisiblearabs.com la riflessione che Paola Caridi ha pubblicato all’indomani del ritrovamento del corpo di Giulio Regeni. Una riflessione che arriva da una profonda conoscitrice dell’Egitto e del Medio Oriente, che ci aiuta a capire e a illuminare cosa accade in quel paese, nell’ipocrita indifferenza di noi tutti. Vogliamo così unirci a quanti hanno già chiesto e chiedono verità e giustizia per Giulio Regeni e continueremo a tener accesa la luce sull’inchiesta sul suo omicidio, sulle persecuzioni contro attivisti, blogger, giornalisti e ricercatori in terra egiziana

 

Stavo pensando a Islam Gawish, appena tre giorni fa. Uno dei più noti vignettisti egiziani, arrestato così, senza capi di imputazione, dai servizi di sicurezza del regime di Abdel Fattah Al Sisi. Lo hanno portato via, sottoposto a un lungo interrogatorio. Forse per l’amministrazione della sua pagina Facebook. Per Islam Gawish si è mobilitata immediatamente la Rete, internet, egiziano e internazionale, chiedendo conto di quello che si stava facendo al Cairo. Islam è forse il vignettista più noto in Egitto. Vignettista, disegnatore satirico: una specie che esiste, eccome se esiste nel mondo arabo, anche se noi pensiamo che esista solo la nostra abilità dissacrante di ridere su qualsiasi cosa. A Islam Gawish è andata bene, è stato rilasciato dopo meno di un giorno. Tutti temevamo che gli fosse toccata la stessa sorte di moltissimi ragazzi egiziani. Migliaia, decine di migliaia di ragazzi in carcere, torturati, molti ammazzati: gli stessi ragazzi egiziani che hanno elaborato una vera e proprio rivoluzione culturale negli ultimi dieci anni. Un decennio a metà del quale, e non per caso, è esplosa la rivoluzione di piazza Tahrir.

Pensavo qualche giorno fa a Islam Gawish, e ai tanti, tantissimi che languono in galera, e mi veniva voglia di scrivere un post sulla “meglio gioventù” egiziana. Ragazzi coraggiosi, resilienti, sorridenti. Ragazzi che non abbiamo difeso.

E poi, accanto a Islam Gawish, quasi sovrapposto, Giulio Regeni irrompe nella cronaca. Sui social, e soprattutto sui nostri quotidiani, in genere disattenti a tutto ciò che succede nella Cairo delle strade, della metro, delle carceri, delle stazioni di polizia. Informazione più attenta agli interscambi tra Italia ed Egitto, alle bilance commerciali, alle possibilità delle imprese italiane di tornare a investire in Egitto, a quanto sono amici i nostri Paesi. Come se nulla, di tragico, sanguinoso sia successo in questi 5 anni…

Irrompe la faccia sorridente, resiliente, coraggiosa di Giulio Regeni nelle fotografie che riempiono il web. Coetaneo di Islam Gawish. Stessa generazione. Una generazione tanto coraggiosa quanto invisibile, a noi. E a essere sconosciuto non è solo Islam il vignettista. Lo è altrettanto Giulio Regeni, dottorando della Cambridge University, visiting scholar della prestigiosa American University del Cairo. È l’università in cui per anni ha insegnato il più grande esperto di sindacati e classe operaia egiziana, Joel Benin. E dei diritti del lavoro si stava occupando Giulio Regeni, un argomento delicato non solo negli anni più recenti, ma anche verso il 2005, quando il regime di Hosni Mubarak cominciò a scricchiolare proprio con le proteste sindacali di Mahalla el Kobra.

Giulio Regeni è diventato visibile all’informazione nel momento esatto della sua assenza conclamata. Singolare, vero? Dei Giulio Regeni al Cairo, a Beirut, a Tunisi, in Kenya nessuno (o quasi) si interessa. Chiamarli ‘cervelli in fuga’ non ha neanche tanto senso. Alcuni sono i cervelli italiani che abbiamo cacciato dal Paese perché non abbiamo dato loro opportunità pari alla loro preparazione. Altri sono nel nuovo dna veri e propri cittadini del mondo: vanno con fatica lì dove vogliono andare, sono talmente bravi che trovano un dottorato a Cambridge, hanno un’etica, credono in un mondo in cui i diritti umani e civili non possono essere a corrente alternata.

Sono la “meglio gioventù” italiana. Così simile alla “meglio gioventù” egiziana. Legata, in comunicazione, oltre le facili letture e gli stereotipi a cui si abbeverano i politici nostrani. Forse simile alla “meglio gioventù” francese, tedesca, inglese, tunisina, siriana, palestinese.

Sono l’ultimo settore delle nostre comunità all’estero: fanno fatica ad arrivare alla fine del mese, sono felici, scrivono, si interrogano, conoscono bene il paese dove vivono, spesso lo amano.

Di loro l’informazione italiana saprà di più nel momento stesso in cui Giulio Regeni è stato ucciso. Non è “morto”, come hanno scritto subito le fonti d’informazione. È stato ucciso. Non si per mano di chi. Forse si sa come. Un colpo in testa, dice l’autopsia. Chi l’ha fatta, l’autopsia? Era presente un medico di fiducia dello Stato italiano? Non è un dettaglio. Ci sono ragazzi egiziani ora in galera che stanno pagando caro l’aver chiesto l’autopsia delle vittime della strage del Maspero, al centro del Cairo. Era la fine di ottobre 2011, e chiedere l’autopsia delle vittime voleva dire individuare subito i responsabili.

L’ambasciata ha fatto un passo buono, molto buono. Chiedere che la salma di Giulio Regeni fosse portata al nostro ospedale, l’Ospedale Italiano del Cairo, uno di quei luoghi che vanno oltre la loro memoria e continuano a essere importanti per la comunità. Solo un primo passo. Un primo passo, in una storia in cui la priorità è proteggere la dignità e la storia di Giulio Regeni. Non solo oggi, non solo domani. Anche fra qualche giorno, settimana, mese. Quando calerà l’attenzione, e magari si sovrapporranno ipotesi di comodo.

LA TORCIA OLIMPICA PER I RIFUGIATI

di Carlo Verna
L’ Olimpiade è la più grande festa del mondo in pace. A Rio saranno 206 le nazioni rappresentate e il Brasile sarà ad agosto per una ventina di giorni il centro del mondo. In passato non sono mancate polemiche, da ultimo ai Giochi di Pechino, per l’assoluta impermeabilità del CIO alle questioni dei diritti umani. Ecco perché avrebbe meritato maggior risalto l’annuncio dell’attuale presidente del comitato olimpico Thomas Bach, che ha
voluto anticipare al mondo la scelta di far passare la torcia anche dalle mani di un rifugiato.Una sorta di bandiera anche per loro. Il presidente del comitato olimpico si è pure intrattenuto giocando a pallone nel campo di Eleonas ad Atene, familiarizzando e tirando quattro calci ad un pallone insieme coi rifugiati iraniani e afghani.‎ Finalmente l’importante è partecipare ad un mondo più solidale, ma in pochi se ne sono accorti.