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Ergastolo per ex dittatore Ciad

di Luca Mershed, Italians For Darfur

Al culmine di un processo storico, l’ex dittatore del Ciad, Hissène Habré è stato riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità, esecuzioni sommarie, torture e stupri.
Habré, che è stato condannato all’ergastolo a Dakar, in Senegal, è il primo ex Capo di Stato ad essere condannato per crimini contro l’umanità da parte dei giudici di un altro Paese.
Secondo Human Rights Watch, l’organizzazione determinante nel portarlo a processo, egli è anche il primo Capo di Stato ad essere mai stato condannato personalmente di stupro.
Durante lo scorso anno, Habré è stato costretto ad ascoltare 90 persone che lo hanno accusato, testimoniando, di aver gettato migliaia di persone in carceri segrete, dove sono state torturate ed uccise. Il suo caso è stato preso in esame dalle Camere Straordinarie Africane, istituite dall’Unione Africana ed il Senegal, e che Habré ha rifiutato di riconoscere.
I sopravvissuti hanno, anche, descritto le condizioni di detenzione spaventose, in cui fra i detenuti giacevano i cadaveri di coloro che erano soffocati o morti di malattia. Le donne sono state tenute come schiave sessuali.
Il giudice Gbertao Kam lo ha condannato all’ergastolo in un carcere in Senegal. “Alcune vittime che sono ancora vive ancora soffrono gli effetti del suo regime, dei crimini commessi contro di essi”, ha detto. “Habré ha creato un sistema in cui l’impunità e il terrore regnavano. Egli non ha mostrato alcuna compassione verso le vittime o espresso qualsiasi rammarico per i massacri e stupri che sono stati commessi”, ha continuato il giudice.
Dopo che il giudice Kam ha consegnato il verdetto, ci è voluto un minuto per capire cosa stava accadendo. Poi un ululato è passato trai banchi delle vittime: erano le vedove, una fila di donne vestite con colori luminosi che aveva viaggiato dal Ciad per vedere cosa sarebbe successo all’uomo responsabile della morte dei loro mariti. Dopo decenni di attesa, possono finalmente festeggiare. L’aula è esplosa in applausi e pianti.
Quasi tre decenni fa, Souleymane Guengueng, un ex ragioniere che ancora non sa il motivo per cui è stato imprigionato, ha promesso nella sua cella, incredibilmente affollata, che se fosse sopravvissuto, avrebbe combattuto per la giustizia. Lunedì, ha potuto sollevare il pugno, e abbracciare i suoi compagni -vittime come lui- da cui ha faticosamente raccolto per decenni la testimonianza. Il suo lavoro è stato fondamentale per il processo.
Clemente Abaifouta, raccontando che durante i suoi quattro anni di detenzione doveva seppellire i corpi in putrefazione dei suoi compagni di cella morti, è saltato su e giù ed ha gettato il cappello in aria, al grido di “Vive la victoire”.
Mentre centinaia di persone applaudivano e celebravano, Habré è stato condotto fuori dal tribunale. Sprezzante con i suoi occhiali da sole cerchiati d’oro ed un turbante bianco che oscurava gran parte della sua faccia, Habré era stato portato nella corte il primo giorno scalciando ed urlando, ma da allora si è nascosto in cantieri di tessuto non pronunciando una parola.
Il giudice ha spiegato che Habré era molto informato su ciò che stava accadendo e ha dato egli stesso gli ordini di esecuzione di molti crimini. “Habré era stato direttamente informato sulla precaria situazione dei prigionieri di guerra, ma aveva ordinato che non un solo prigioniero di guerra aveva il permesso di lasciare la galera finché non era morto”, ha affermato.
“Il suo metodo era del tutto coerente: identificare i nemici del regime, arrestarli, torturarli, sottoporli a condizioni orribili, ucciderli. Le testimonianze di violenza sessuale sono state considerate molto credibili dal giudice. La corte è convinta che le donne abbiano detto la verità”, ha concluso il giudice.
“Questo giudizio è così sorprendente”, ha detto Reed Brody, l’avvocato di Human Rights Watch conosciuto come il Caccia Dittatori, che ha combattuto al fianco delle vittime a partire dal 1999 per ottenere che Habré fosse processato per quello che aveva fatto.
“La condanna di Habré per questi crimini orribili dopo 25 anni è una vittoria enorme per le vittime ciadiane, senza la cui tenacia questo processo non sarebbe mai avvenuto”, ha detto Brody. “Questo verdetto invia un messaggio forte che i giorni in cui i tiranni violino i diritti delle persone, saccheggino i loro beni e scappino all’estero per una vita di lusso stanno volgendo al termine. Questa giornata sarà scolpita nella storia come il giorno in cui un gruppo di sopravvissuti ha portato il loro dittatore alla giustizia”, ha terminato affermando con orgoglio.
Il figlio di Habré, Bechir Hissène Habré, è stato in tribunale, e ha detto che Idriss Déby, l’attuale Presidente del Ciad, che ha spodestato Habré in un colpo di Stato, potrebbe rispondere per quello che è successo a suo padre. Habré ha vissuto a Dak

Europarlamento si mobilita per Asia Bibi

di Antonella Napoli

 

È partita oggi, su iniziativa del vicepresidente del Parlamento Europeo con  delega al dialogo interreligioso, Antonio Tajani, la raccolta firme tra gli europarlamentari contro l’esecuzione della pena capitale e  per la liberazione di Asia Bibi, madre di cinque figli  condannata per blasfemia in Pakistan nel 2010.
Dovrebbero essere in molti, viste le tante battaglie già intraprese contro la persecuzione dei cristiani a Bruxelles, a sottoscrivere la dichiarazione presentata da Tajani, sia eurodeputati di varie nazionalità che di diversi gruppi politici. L’obiettivo è di raccogliere in tre mesi  le firme della metà più uno dei membri del Parlamento europeo .
Oltre  questa soglia, la dichiarazione avrà giuridicamente l’effetto di una  vera petizione e sarà inviata all’Alto rappresentante dell’Unione europea  e alla Commissione europea per intraprendere tutte le azioni politiche  e diplomatiche necessarie per la liberazione di Asia Bibi e per la  promozione del rispetto della libertà  religiosa in Pakistan.
L’Europa dunque non resta in silenzio  davanti all’ingiusta prigionia della Bibi, in carcere da 7 anni. La donna è divenuta un simbolo della persecuzione  di cui sono vittime i cristiani in tutto il mondo.
Impedire che sia  eseguita una condanna a morte per un reato inaccettabile e  inesistente è un dovere di tutti, cristiani e non. Ne  è convinto  il vicepresidente del Parlamento europeo che  annunciando l’avvio della raccolta delle firme ha ricordato che il 4 novembre 2014 una folla di 1500 persone in Pakistan  bruciò viva una coppia accusata di blasfemia e due mesi  fa, durante le festività di Pasqua, migliaia di  estremisti islamici hanno manifestato davanti ai palazzi del governo a Islamabad chiedendo la piena applicazione della Sharia e l’esecuzione  della prigioniera sulla base di accuse prive  di riscontro basate sulle dichiarazioni di un gruppo di donne musulmane che l’avevano denunciata alla polizia giorni dopo presunte offese al Corano.
Da quando è stata arrestata nel 2009, la donna è stata tenuta in quasi totale isolamento allo scopo di proteggerla. La sua salute mentale e fisica è andata deteriorandosi durante la permanenza in carcere. La sua famiglia e gli avvocati continuano a temere per la sua sicurezza. Nel dicembre 2010, un religioso islamico di primo piano ha offerto mezzo milione di rupie pakistane (circa 4000 euro) a chiunque l’avesse uccisa.
Eppure la Bibi non avrebbe nemmeno dovuto essere imprigionata, visto che le leggi sulla blasfemia sono incompatibili con gli obblighi internazionali del Pakistan di garantire i diritti alla libertà di espressione, di pensiero, di coscienza e di religione.
La Sharia (la legge islamica) è però ancora utilizzata per risolvere le controversie personali e coloro che sono accusati di blasfemia diventano bersaglio di violenza. 
Anche se da quando le nuove leggi sulla libertà religiosa sono entrate in vigore in Pakistan nessuno è stato giustiziato, decine di persone di diverse comunità religiose, tra cui musulmani, sono stati attaccati e uccisi da privati dopo essere stati accusati di blasfemia, alcuni anche durante la detenzione.
Sul caso di Asia Bibi si è da subito mobilitata Amnesty International che ha lanciato una campagna per chiedere la liberazione e la garanzia di misure efficaci per garantire la sua sicurezza e quella della sua famiglia.
L’organizzazione per i diritti umani ha anche inviato una lettera aperta al primo ministro pakistano per sollecitare una riforma della legge sulla blasfemia e fornire salvaguardie contro il suo abuso, in vista dell’abrogazione definitiva della stessa. Ma finora poco è cambiato,
L’auspicio, ora, è che l’iniziativa europea possa prima di tutto portare alla sospensione della pena della Bibi ma anche sollecitare le istituzioni del Pakistan ad assumere provvedimenti concreti a tutela delle minoranze religiose, costantemente a rischio nel Paese.

 

 

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Stato di emergenza in Colombia

 

di Luca Mershed

Nicolas Maduro ha dichiarato lo Stato di emergenza e lo Stato di emergenza economica in Venezuela “per proteggere la Patria”, “affrontare le minacce esterne” ed anche “sconfiggere il colpo di Stato in atto”. Il Presidente ha dato l’annuncio in una trasmissione televisiva al Paese, dove ha anche comunicato di aver ordinato il ritorno a Caracas di Alberto Padilla, il suo ambasciatore in Brasile, prima del “colpo di Stato” progettato dal Senato contro Dilma Rousseff.

“Ho deciso di adottare un nuovo decreto per la necessità di sconfiggere il colpo di Stato, la guerra economica, stabilizzare socialmente il Paese ed affrontare le minacce contro il Paese “, ha detto il presidente Maduro.

“Questo decreto non consente di sospendere le manifestazioni, ma può essere utilizzato illegalmente”, ha detto José Vicente Haro, costituzionalista del canale NTN24. L’annuncio di Maduro si verifica dopo aver esaurito i 120 giorni del decreto di emergenza precedente, in cui “si sono promulgati 21 decreti per proteggere il popolo e la stabilità del Paese. Sono decreti di pace, di amore, di protezione nel quadro della Costituzione”, ha affermato il Presidente.

Però, la sintesi del decreto di emergenza non può essere peggiore per il Venezuela: infatti l’inflazione sta distruggendo le tasche del suo popolo e la scarsità di cibo, medicine e materie prime cresce di settimana in settimana. Questo decreto era stato approvato con la forza dell’ideologia rivoluzionaria nonostante il voto negativo dell’Assemblea Nazionale, grazie ad una decisione del Tribunale Supremo di Giustizia. La Costituzione indica che il decreto doveva essere approvato dall’Assemblea Nazionale, qualcosa di irrealizzabile dopo la giurisprudenza creata dal Tribunale Supremo di Giustizia.

Durante il suo discorso, Maduro è tornato a scatenarsi contro l’opposizione e contro il presidente Barack Obama, il quale ha accusato il Governo di non democraticità.

Tutto ciò è stato la premessa alla decisione del 18 maggio del Parlamento del Venezuela che ha respinto il prolungamento dello “Stato di emergenza e dello Stato di emergenza economica” giudicando “incostituzionale” il decreto emanato venerdì dal presidente Nicolas Maduro.

“È un decreto che ignora la Costituzione ed ignora il dolore delle famiglie venezuelane”, ha detto l’opposizione parlamentare, rappresentata da Julio Borges, durante una sessione legislativa. Il decreto, pubblicato ieri nella Gazzetta ufficiale, permette di “dettare misure e piani speciali per la pubblica sicurezza per garantire la sostenibilità delle forze dell’ordine durante azioni destabilizzanti”. Borges, leader del blocco di maggioranza dell’opposizione, ha criticato la norma perché non risolverà i problemi sociali, economici e politici ma addirittura li peggiorerà. Dal suo punto di vista, “l’unica cosa che interessa” il presidente Maduro è “rimanere al potere”, ma ha avvertito che “il popolo venezuelano potrà revocarglielo attraverso il voto”.

Il Presidente dell’Assemblea Nazionale, Henry Ramos Allup, ha sottolineato che “questo Governo si trova in una situazione molto difficile e molto fragile e, non avendo la capacità di mantenere una pace sociale, cerca dei mezzi illegali per restare al potere”. A suo parere, Maduro “è in uno stato di disperazione”, e non si sta attenendo alla Costituzione con la scelta di promulgare questo decreto.

“Con questo atto vengono violate una serie di regole che vanno direttamente contro la Costituzione, come per esempio, non poter dettare mozioni di sfiducia, non poter approvare crediti addizionali e quindi il Presidente può spendere senza freni e senza alcun controllo”, ha detto Ramos Allup.

Il deputato chavista, Elias Jaua Chavez, ha accusato il blocco di maggioranza dell’opposizione di voler legiferare senza il popolo, ed ha indicato che con il decreto, Maduro cerca di evitare una “guerra civile” che è promossa dall’opposizione e dall’imperialismo. “Questo decreto per uno Stato di emergenza è quello di proteggere i venezuelani e garantire il diritto alla vita ai venezuelani”, ha concluso il deputato.

Il decreto, ufficializzato lunedì, è una norma con la quale Maduro propone di affrontare la presunte minacce di un colpo di Stato che è stato portato avanti dagli Stati Uniti con l’aiuto dell’opposizione venezuelana e il sostegno dell’ex presidente colombiano Alvaro Uribe, secondo quanto affermato di recente. “Lo Stato di emergenza e lo Stato di emergenza economica sono dichiarati (…), date le circostanze sociali, economiche, politiche, naturali ed ecologiche che potrebbero compromettere seriamente l’economia nazionale, l’ordine costituzionale, la pace sociale, la sicurezza della Nazione”, dice l’articolo 1 della norma del decreto.

La norma permette di “dettare misure e piani speciali per la pubblica sicurezza e garantire il mantenimento dell’ordine pubblico in azioni destabilizzanti che cercano di irrompere nella vita interna del Paese o le relazioni internazionali di questo”.

Il decreto si basa, tra l’altro, nella “considerazione” che la maggioranza dell’opposizione del Parlamento presumibilmente pretende “il disconoscimento di tutte le autorità pubbliche” e promuove “l’interruzione del mandato presidenziale stabilito nella Costituzione da qualsiasi meccanismo a loro disposizione al di fuori dell’ordine costituzionale”.

La cultura del sospetto

di Pino Scaccia

L’esempio più clamoroso è sicuramente quello di Guido Menzio, l’economista italiano fatto scendere dall’aereo per colpa di una signora ignorante e sospettosa che ha scambiato appunti di fisica per scritte in arabo. Ma gli episodi sono tanti: clamoroso l‘equivoco capitato a Nainggolan, calciatore della Roma, scambiato per un terrorista dai clienti di un albergo ad Anversa, la sua città, solo perché ricoperto di tatuaggi. …Leggi tutto »

La legge «Anti moschee» del Veneto: impugnabile

di Gian Mario Gillio

La «legge anti moschee» verrà verosimilmente impugnata dal governo davanti alla Corte Costituzionale il 14 giugno.

La notizia della probabile impugnazione della recente legge sull’edilizia di culto della regione Veneto da parte del Governo è scaturita stamane, 13 maggio, in occasione del question-time, in risposta ad una interrogazione (interpellanza n° 2 -01362 sugli intendimenti del Governo in merito alla legge della Regione Veneto del 12 aprile 2016, N° 12, nel modificare la legge regionale 23° aprile 2004, N° 11 per la realizzazione delle strutture religiose e annessi spazi di servizio legata alla previsione di vincoli urbanistici) presentata dalla deputata del Partito Democratico, Gessica Rostellato. «Tutte le fedi religiose sono toccate dalla legge regionale veneta – ha ricordato la deputata Gessica Rostellato al sottosegretario del ministero dell’Economia e delle finanze, Pier Paolo Baretta – perché limita e discrimina la libertà religiosa attraverso vincoli urbanistici; prevede l’istituto del referendum e vincoli linguistici che non sono di competenza regionale. Chiediamo quindi al governo di impugnarla».

La Legge veneta viola palesemente il principio fissato dalla Costituzione che garantisce la libertà di religione, di culto e di libero esercizio: «Il testo della Regione Veneto – ha ricordato alla Camera il deputato valdese Luigi Lacquaniti – limita ed impone molte restrizioni ad hoc per allontanare dai centri abitati i luoghi di culto musulmani, le chiese evangeliche ed ortodosse e i luoghi di culto buddisti. Addirittura arriva a dare ai sindaci la possibilità di vietare la realizzazione di questi centri. Come se non bastasse la legge va a colpire indirettamente anche tutte le future edificazioni del mondo cattolico, dai seminari alle sedi della Caritas o dell’Azione cattolica».

Il governo ha 60 giorni di tempo dall’approvazione per impugnare l’atto che quindi è previsto entro il prossimo 14 giugno 2016. Nel febbraio scorso la Corte Costituzionale aveva già reso in parte incostituzionale la legge della Regione Lombardia, molto simile a quella veneta.

«Nella risposta che il governo ha dato questa mattia alla nostra interpellanza, firmata da tutti i parlamentari del Pd veneti e discussa a Montecitorio, che aveva per oggetto la legge della Regione Veneto denominata “Legge anti moschee” – ha dichiarato a Riforma.it l’onorevole Lacquaniti – il Governo, pur prendendosi i tempi necessari di prassi, che sono relativi a 60 giorni con scadenza il 14 giugno, ha fatto espresso riferimento all’analoga legge della Regione Lombardia e alla relativa impugnazione della Corte Costituzionale da cui è scaturita la parziale incostituzionalità della stessa. «Questo – prosegue Lacquaniti – ci fa ragionevolmente sperare nell’impugnazione, nei termini previsti, anche della legge Regionale del Veneto, speranze unite alle notizie rassicuranti che ci sono giunte da esponenti del governo stesso».

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Illuminare il Darfur: sit-in per accendere i riflettori a Roma come a Londra e Washington

di Antonella Napoli

Da Washington a Roma, attivisti di tutto il mondo e rifugiati sudanesi hanno manifestato per richiamare l’attenzione dei media e delle istituzioni sulle nuove violenze in Sudan.
Nella capitale l’organizzazione Italians for Darfur e i rifugiati sudanesi in Italia, con il supporto di Articolo 21 e della rete “Illuminare le periferie”, hanno animato un flash-mob al Colosseo, luogo simbolico per le battaglie sui diritti umani.
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We giallo per Giulio Regeni

di Antonella Napoli, Articolo 21

 

Alla vigilia di un weekend all’insegna del giallo per Giulio Regeni, con gli striscioni esposti in tutti gli stadi italiani e il flash-mob di Amnesty a Milano, domenica 24 aprile alle 16, in piazza della Scala, dall’Egitto ci arriva un’ennesima, atroce storia di violenze e sevizie.
Human Rights Watch, riportando le  testimonianze dei familiari e degli avvocati di 20 giovani egiziani, arrestati ad  Alessandria e trattenuti per giorni senza processo e senza che le  famiglie ne fossero informate, denuncia che lo scorso febbraio sono stati torturati dalle autorità per diversi giorni. Tra le vittime anche otto minorenni.
Manifestazione non autorizzata, atti di vandalismo, adesione a gruppi eversivi, questi i reati contestati. …Leggi tutto »

Brasile, le notizie taciute sulla crisi

di Luca Mershed

 

Nella notte di domenica, i legislatori brasiliani hanno votato per approvare l’impeachment verso Dilma Rousseff, primo Presidente donna della Nazione, il cui mandato è stato sballottato da uno scandalo di corruzione vertiginosa, un’economia in contrazione ed una disillusione diffusa. …Leggi tutto »

Ambasciatori di pace

di Antonella Napoli

 

Quaranta giovani italiani saranno tra gli ambasciatori nel mondo di One, l’organizzazione fondata nel 2004 da Bono Vox, leader degli U2, e sostenuta da oltre 7 milioni di persone che concorrono alla realizzazione di campagne e di iniziative di sensibilizzazione sulla povertà estrema e le malattie prevenibili, soprattutto in Africa. …Leggi tutto »

Referendum in Darfur: una svolta epocale?

di Luca Mershed, Italians for Darfur

Un importante passo storico per il Darfur inizia con il referendum di questa settimana che offrirà l’opportunità di unificare i cinque Stati della Regione del Sudan, una richiesta di lunga data dei ribelli che cercano una maggiore autonomia. L’instabilità in corso tra gli insorti sta, però, boicottando il referendum.

Aver diviso la regione del Darfur in cinque Stati secondo fattori etnici e tribali ha condotto alla frammentazione del tessuto sociale ed ha distrutto la coesione regionale ed il senso di appartenenza. Queste fratture sono state gestite dal Governo di Khartoum attraverso molti crimini e la creazione di focolai di terrorismo in cui il Governo ha portato i terroristi di Boko Haram, al Qaeda e l’ISIS.

La vasta regione del Darfur nel Sudan occidentale ha subito, dalla guerra civile del 2003, un altissimo logoramento che ha portato alla morte di 300 mila persone, secondo le Nazioni Unite (ONU) e 10 mila, secondo il regime di Khartoum, ed ha causato lo sfollamento di 2,7 milioni di rifugiati. Tuttavia, nel corso degli ultimi 13 anni dallo scoppio della guerra in Darfur, la macchina di annientamento del regime ha provocato circa 400 mila morti, più di 3 milioni di sfollati e circa 600.000 persone sono state costrette ad attraversare le frontiere con il vicino Ciad e la Repubblica Centrafricana.

Gli obiettivi del Regime per il referendum amministrativo previsto per il Darfur l’11 aprile 2016 includono:

  • commettere ulteriori crimini di genocidio contro i civili disarmati
  • grandi operazioni di spostamento delle popolazioni indigene
  • un’ulteriore frammentazione della regione del Darfur in altri Stati (tre e cinque)
  • una nuova ondata di violazioni per lo spostamento di più persone
  • smontare i campi per sfollati per cancellare la prova della grandezza dei crimini commessi contro i cittadini
  • un referendum per intraprendere un nuovo processo di segmentazione, che porterebbe ulteriori divisioni ed eliminare l’identità della popolazione della Regione
  • il cambiamento demografico per la nuova divisione del territorio attraverso lo spostamento della popolazione indigena e la sostituzione con nuovi mercenari e milizie che combattono una guerra per procura in favore del Regime

In tal modo, il regime al potere sta preparando un falso referendum amministrativo i cui risultati sono noti in anticipo; il capo del regime Omar al-Bashir è il giudice e carnefice allo stesso tempo.

Nonostante gli evidenti problemi, al-Bashir ha detto che “il popolo del Darfur sceglierà se vogliono degli Stati o una Regione e stiamo tenendo questo referendum in modo che nessun altro possa venire a dire che vogliamo questo o quello”.

Il Partito Nazionale del Congresso dice che cinque Governi statali sono maggiormente in grado di prendersi cura del popolo del Darfur rispetto ad una singola amministrazione. Dalla sua incorporazione al Sudan nel 1916 fino al 1994, il Darfur è stato una regione unita. Nel 1994, al-Bashir ha diviso il Darfur in tre Stati aggiungendone altri due nel 2012.

Attraverso la paura ed il controllo della gran parte della Regione, il risultato del referendum sembra palesemente scontato: coloro che volessero l’unità sembrano rassegnarsi prima del voto.

Il Governo ha, anche, sottolineato che il voto è uno dei termini dell’accordo di pace del 2011 tra Khartoum ed alcuni gruppi di ribelli. Alcuni dei gruppi che hanno firmato il trattato hanno iniziato una campagna per una sola Regione, ma altri ribelli non firmatari hanno detto che il risultato sarà privo di significato perché a causa dei disordini nella Regione molti non voteranno -in particolare gli sfollati–, mentre il Governo mobiliterà i suoi sostenitori nelle Capitali di Stato e nelle grandi città.

“Il referendum non è una priorità per il Governo che è pronto a ignorare i punti più importanti del trattato di pace” ha detto Abdullah Mursal, leader nella fazione del Movimento per la Liberazione del Sudan guidato da Minni Minnawi.

Alcuni gruppi affermano che il referendum può essere valido solo quando tutti gli sfollati interni tornino a casa e possano recarsi alle urne. “La priorità è il ritorno degli sfollati ai loro villaggi”, ha detto il portavoce del Movimento per la Giustizia e l’Uguaglianza, Jibril Bilal. “Così com’è, qualunque sia il risultato, il referendum non significa nulla”, ha concluso.

Ad un giorno del referendum non è ancora chiaro come la votazione si svolgerà nei campi per sfollati. Molti sono pattugliati dalle forze di pace internazionali. Tuttavia, la Commissione referendaria ha sottolineato che l’interesse per il voto è stato alto con “3.583.105 di 4.588.300 persone con diritto al voto”. Tale numeri non possono essere verificati in modo indipendente perché l’accesso della stampa nella regione del Darfur è limitato.

L’obiettivo di tenere il referendum può anche essere, semplicemente, quello di dimostrare alla comunità internazionale le buone intenzioni del Governo. Dietro a questa buona intenzione bisogna prestare attenzione ai modi in cui viene espletata: fino ad adesso è stato appurato che la buona intenzione c’è, ma il referendum nasconde, come detto, tanti aspetti negativi che non rendono veritiero e giusto il processo di voto.